Omicidio Ciopparo (1888) – Brattirò

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Rombolà Giuseppe, Ciopparu, nacque nel 1851.

Era secondo di dodici fratelli e sorelle. Suo padre si chiamava Antonio e sua madre Caterina Rombolà.

Giuseppe era un uomo forte di carattere, rispettoso e rispettato. Apparteneva ad una famiglia che non aveva soprannome, e così ad ognuno ne è stato affibiato uno; il fratello Pietro era Petrumassara e lui, Giuseppe era u Ciopparu, soprannome a cui non si sa dare una plausibile spiegazione, forse dovuto al fatto che era un uomo esile e molto alto.
Giuseppe, all’età di venti anni sposò Elisabetta Rombolà, figlia di Girolamo Rombolà, detto Varvetta. Coltivava, con l’aiuto della moglie e dei figli, il fondo “caggiano”, avuto in affitto dalla famiglia Toraldo di Tropea. “Caggiano” era un fondo coltivato a vigneto e uliveto. Il fitto era il corrispettivo pagato da chi ha ricevuto un bene in godimento, cioè in affitto. Il proprietario del fondo “caggiano” era Ignazio Toraldo, uomo – si tramanda – intollerabile, odioso, avido di denaro che imponeva a Giuseppe fitti sempre più esosi e una infinità di “Jusi” ovvero richieste in natura: polli, uova, conigli, frutta.
Nell’estate del 1888, Giuseppe si ribellò alle richieste del Toraldo, e “u gnuri” lo cacciò dal fondo dicendo che il terreno lo avrebbe coltivato direttamente o dato ad altri per farlo.
Giuseppe Ciopparo, così, perse il sostegno per la famiglia (aveva cinque figli in tenera età), ma pesava anche il fatto che era stato cacciato da un proprietario al quale era stato sempre fedelmente devoto, e non poteva, ovviamente, sopportare che altri coltivassero la vigna che lui aveva piantato e gli alberi di ulivo dai quali si raccoglievano ottime olive che, messi in salamoia, erano un companatico per tutto l’anno, oltre al fatto che producevano l’olio, alimento indispensabile per la famiglia.
Il pensiero fisso che nessuno, se non lui, doveva vendemmiare la sua vigna tormentava Giuseppe, che si aggirava tutti i giorni nel fondo “caggiano” con il suo fucile sulle spalle.
Il 28 settembre 1888, il Toraldo organizzò la vendemmia. Nessuno di Brattirò, per solidarietà e rispetto verso Giuseppe Ciopparo, volle andare a vendemmiare e allora “u gnuri” si portò operai da Tropea. Convinse un suo affittuario di Caria, Francesco Pugliese di Gaetano, detto Ciccu i Gaitanu, di andare al fondo “caggiano” per organizzare il lavoro e controllare gli operai. Ciccu i Gaitanu era molto amico di Giuseppe Ciopparo, e accettò l’incarico datogli dal Toraldo anche con l’intento di cercare un riavvicinamento tra i due.
Gli operai e Ciccu i Gaitanu quella mattina, di buonora, arrivarono nella vigna dove però trovarono Giuseppe Ciopparo armato di fucile. Costui era determinato nel suo proposito di non far toccare a nessuno un chicco d’uva. Quel mattino cominciò a piovere e tutti gli operai si ripararono in un attiguo pagliaio. Ciccu i Gaitanu, amico di Giuseppe, cercava di convincerlo a mettere da parte rabbia e rancore perché, con le buone maniere e con la sua intermediazione, tutto si sarebbe aggiustato tra Giuseppe e “u gnuri” Toraldo.
Giuseppe si disse disponibile ad un accordo con Toraldo perchè quella vigna lui l’aveva coltivata e lui doveva raccogliere l’uva per fare il vino. Francesco Pugliese mediò con Toraldo riferendo le richieste del Ciopparo e pregando “u gnuri” che si rendesse disponibile e si ponesse fine alla controversia per la pace di tutti.
Il Toraldo, armato di fucile, e sentendosi protetto da quegli operai che aveva portato da Tropea, declinò ogni possibile e proponibile trattativa e disse, di rimando, al Pugliese di riferire al Ciopparo che, appena avesse smesso di piovere, i suoi operai avrebbero cominciato a raccogliere l’uva, asserendo che al Ciopparo ci avrebbe pensato lui col suo fucile a farlo ragionare. Toraldo e i suoi operai rimasero nel pagliaio finchè piovve; quando smise di piovere, il Toraldo mandò il Pugliese fuori a raccogliere un po’ d’uva per mangiarla, ma con il chiaro intento di vedere quale fosse la reazione del Ciopparo.
Mentre il Pugliese si accingeva a raccogliere qualche grappolo d’uva, il Ciopparo, che era in mezzo alla vigna, gli disse: “Ciccu, ti dissi ca sta racina nuju havi pimmu a coggi, vavattindi si vo’ mu campi”. Il Pugliese rispose: “Ma Peppi, non staju vindignandu, staju coggendu nu pocu i racina pimmu ‘nda mangiamu”.
Appena Ciccu i Gaitanu raccolse il primo grappolo d’uva, u Ciopparo perse il lume dell’intelletto e premette il grilletto, considerando il comportamento del Pugliese come un affronto a lui perpetrato dal Toraldo, se non una vera e propria sfida.
Forse non voleva uccidere ma intimidire e dare dimostrazione che era determinato nei suoi propositi e faceva sul serio. Ciccu i Gaitanu stramazzò nella vigna col petto squarciato. Gli operai che erano nel pagliaio scapparono tutti e lo stesso Toraldo salì sul cavallo e galoppò verso Tropea.
Peppe Ciopparo rimase pietrificato dal dolore.
Subito il dramma consumatosi a “caggiano” venne a conoscenza di tutti, “a mala nova curri!”. In località “vento” c’era Rosaria, la figlia maggiore del Pugliese, che, appena appresa la notizia, corse a “caggiano” e piangeva, disperata, il padre barbaramente e incolpevolmente ucciso.
Nessuno osava avvicinarsi, anzi tutti si erano allontanati dal luogo della tragedia. Si avvicinò solo una donna anziana a consolare la povera Rosaria e portò una scala di legno su cui venne legato il cadavere del Pugliese e portato a Caria dalle due donne “’mbara ‘mbarella”.

Riportiamo l’Atto di morte di Francesco Pugliese.

COMUNE DI Drapia
Numero 59 – Cinquantanove
Pugliese Francesco
L’anno milleottocentoottantotto, addì ventotto di settembre a ore pomeridiane tre e minuti cinque, nella casa comunale, avanti di me Antonio Pungitore, funzionante da Sindaco, Uffiziale dello Stato Civile del Comune di Drapia, sono comparsi Domenico Pugliese, di anni cinquantasei, contadino, domiciliato in Caria, e Giuseppe Loiacono, di anni quarantasei, merciere, domiciliato in Caria, i quali mi hanno dichiarato che a ore antimeridiane nove e minuti sei di oggi, nella casa posta in fondo caggiano, è morto Francesco Pugliese, di anni cinquantotto, massaro, residente in Caria, nato in Caria da Gaetano, massaro, domiciliato in Caria e da Rosaria Staropoli, contadina, domiciliata in Caria, marito di Caterina Pugliese.
A quest’atto sono stati presenti quali testimoni Giuseppe Ruffa, di anni cinquanta, bracciale e Antonio Mazzitelli, di anni cinquantatre, bracciale, ambi residenti in questo comune.
Avendo letto il presente atto a tutti gli intervenuti, da me e da tutti è stato sottoscritto.

L’Uffiziale dello Stato Civile
F. Pungitore

Giuseppe Ciopparo, sgomento e in preda a un grave rimorso, si diede alla latitanza, ma dopo pochi giorni si costituì. Venne incarcerato, processato e condannato al carcere a vita.
Il fondo “caggiano” rimase incolto. Il proprietario Ignazio Toraldo lo mise in vendita, ma non trovò un acquirente disposto a comprarlo. Nessuno osava entrare in quel fondo e in quel terreno così gravemente macchiato di sangue, per rispetto ma anche per paura della reazione dei fratelli di Giuseppe.
Dopo circa cinque anni dalla tragedia, il suocero di Giuseppe Ciopparo, Girolamo Varvetta, con l’aiuto dei fratelli di Giuseppe, comprò il fondo “caggiano”, e così quel terreno tornò, anzi, divenne di proprietà della famiglia di Giuseppe Ciopparo.

Pasquale Vallone

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