Brattirò – Omicidio “Sopo”

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La copertina del libro sulla storia di Brattirò

Extract libro “Brattirò e la sua storia…” di Pasquale Vallone

  • OMICIDIO DI  ROMBOLA’  PASQUALE  –  SOPO –   (1897 )

Ancora oggi ritorna alla memoria la drammatica vicenda di Pasquale Rombolà, detto Sopo.

Pasquale Rombolà nacque nel 1861 da Francesco Rombolà e da Annunziata Ferraro; la sua famiglia discendeva da Vincenzo Rombolà, detto Milingiana.

Pasquale aveva un carattere tranquillo, era buono e rispettoso, qualità ereditate dalla madre, a differenza dei due fratelli e delle due sorelle che erano irascibili: degni discendenti di Milingiana.

Nel novembre del 1886, Pasquale sposò Maria Rosa Pugliese, giovane diciottenne di Brattirò, e nel gennaio del 1888 nacque il figlio Francesco, che dopo pochi giorni morì. Appena un anno dopo, gli nacque un altro figlio maschio.

I tempi erano duri e tristi, la miseria era tanta e Pasquale pensò di emigrare negli Stati Uniti. Qui cominciò a lavorare e a mettere qualche risparmio da parte quando gli giunse la notizia che il figlioletto, di due anni, era morto.

Nel 1892 rientrò dall’America e nel 1893 venne alla luce un terzo figlio a cui fu dato il nome di Francesco, come il primo. Fu riguardato come meglio i genitori non potevano, ma purtroppo il destino sembrava accanirsi contro questa famiglia e anche Francesco morì all’età di due anni.

L’anno dopo la moglie di Pasquale – Sopo – incorse nella quarta gravidanza, ma al momento del parto morirono sia la madre, che aveva ventotto anni, che il figlio. Sopo rimase drammaticamente solo e sconsolato.

Ma un altro crudele destino lo aspettava.

La mattina del 15 agosto 1897 si avviò verso Tropea per portare un pollo, uova e frutta fresca al proprietario terriero, “u gnuri”, come d’usanza. Percorse la stradina dove c’è l’attuale campo sportivo, in contrada “camina”;  qui  aveva un appezzamento  di terreno coltivato a mais. Il giorno prima aveva tagliato le cime del mais, di cui rimaneva il tronco con le pannocchie, e, in mezzo a quel terreno, c’era un grande albero di pero della qualità “agustarico”.

Guardando sull’albero, vide due giovani e altri due erano a terra, tutti intenti a mangiare pere. Appena i quattro si accorsero dell’arrivo del padrone, cercarono di darsi alla fuga, ma Sopo gridò: “E’ nutili ca scappati, tantu vi canuscivi”, e pare che avesse proferito anche qualche nome. All’improvviso, i quattro interruppero la fuga, si fermarono, confabularono e tornarono indietro con insolenza e spavalderia; uno di loro estrasse una pistola e sparò a Sopo che rimase ucciso all’istante.

Riportiamo l’Atto di Morte.

COMUNE DI Drapia

Numero 26 – Ventisei

ROMBOLA’ PASQUALE

L’anno milleottocentonovantasette, addì 16 di agosto a ore premeridiane dieci e minuti quaranta nella casa comunale, avanti di me Naso Pietro, Sindaco, Uffiziale dello Stato Civile del comune di Drapia, sono comparsi Ruffa Antonio, di anni sessantatre, sarto, domiciliato in Drapia, e De Marco Francesco, di anni quarantacinque, sarto, domiciliato in Gasponi, i quali mi hanno dichiarato che a ore pomeridiane cinque e minuti quarantacinque di ieri, nella casa posta in campagna, in Brattirò, fu trovato morto Rombolà Pasquale, di anni trentasei, contadino, residente in Brattirò, nato in Brattirò da Francesco, contadino, domiciliato in Brattirò e da Ferraro Annunziata, contadina, domiciliata in Brattirò, vedovo di Pugliese Maria Rosa. A quest’atto sono presenti quali testimoni Del Vecchio Clemente di anni trentasette, segretario, e De Rito Giuseppe, di anni trentaquattro, possidente, ambi residenti in questo comune.

Letto il presente atto a tutti gli intervenuti, viene da me e dai testimoni firmato.

Pietro Naso Sindaco

Dopo un iniziale sgomento, i giovani, accertatisi che nessuno li avesse visti, presero il corpo esanime di Sopo, lo trascinarono ai piedi dell’albero di pero, lo misero seduto su una mannella di cime di mais, gli misero il berretto in testa, la bisaccia (a vertula) a tracolla, un sigaro, spento, in bocca, lo appoggiarono ai piedi dell’albero di pero e poi, attraverso i campi, si allontanarono verso il paese.

Però, all’insaputa dei quattro giovanotti, ci fu  una testimone che ha raccontato i fatti così come li abbiamo descritti nella loro reale sequenza.

Si trovava poco distante e si nascose nel campo di mais per non essere vista. Si trattava di Orsola Rombolà (di Camina) nata nel 1868, nubile, che era rimasta nascosta tra il mais, nel suo appezzamento di terreno attiguo a quello di Sopo e quindi, suo malgrado, era stata testimone oculare della drammatica vicenda.

Dopo che i quattro lasciarono il corpo  di Sopo esangue, lei tornò a casa atterrita. Raccontò tutto al padre in evidente comprensibile stato emozionale. Il padre, conscio della gravità del fatto, impose a tutta la famiglia il silenzio per evitare brutte conseguenze, e così, egli stesso, si recò con altre persone nel suo podere da dove fu scorto il corpo senza vita di Sopo, come fosse un fatto casuale, dimostrando forte sgomento.

Avvertirono i carabinieri, che cominciarono a interrogare tante persone; il caso si presentava difficile, anche perché non si riusciva a trovare un movente.

Si venne a sapere che tra Sopo e il fratello Vincenzo c’erano stati frequenti, e a volte violenti, litigi e, un pomeriggio di agosto, i carabinieri arrestarono Vincenzo con l’accusa di omicidio premeditato nei confronti del fratello.

Vincenzo fu rinchiuso nel carcere di Monteleone. Fu processato e condannato a nove anni di prigione.

La moglie, in preda alla più cupa disperazione e angoscia, con la certezza dell’innocenza del marito, in un disperato pianto e con tanto astio, prostrata al suolo, invocò la maledizione del cielo sugli autori dell’efferato delitto con questo anatèma: “Signuri mio, cu havi coza e curpa, u mu paganu tutti a gralimi i sangu!”.

La moglie di Vincenzo Rombolà era Maria Rosa Vallone, al momento dell’arresto del marito rimase sconsolata e sola con sette figli; la più grande, Annunziata (a ‘za Nunziata Allanda),  aveva 13 anni e il più piccolo 10 giorni. Al mattino andavano tutti  a lavorare nei campi. Nei giorni in cui le era concesso visitare il marito in carcere, lasciava i figli alla custodia di Annunziata e, a piedi, si recava al carcere di Monteleone per fare visita al marito, che si dichiarava sempre innocente.

Maria Rosa era vicina di casa e amica di Orsola, la testimone oculare dell’uccisione di Sopo. Orsola, consigliata, andò dal prete e in confessione raccontò quanto aveva visto. Fatta la confessione si sentì liberata da un segreto così grave e pesante che non poteva tenere per sé, e pregò il parroco di rivolgersi alle autorità competenti per segnalare il fatto, di modo che Vincenzo, innocente, potesse tornare libero dalla sua famiglia.

Don Raffaele Ruffa, parroco di Brattirò da un trentennio, non sapeva come agire e cosa fare; era cosciente di avere una grande responsabilità e non sapeva  come comportarsi e tanto meno come uscirne: viveva giorni di angoscia. Chiedeva consiglio alle persone che riteneva più competenti e riservate; la notizia cominciò ad allargarsi “nascostamente” e giunse alle orecchie degli autori del delitto.

Costoro, una notte, fecero irruzione nella casa del prete sostenendo che le voci che correvano erano tutte menzogne perché loro erano innocenti e nulla avevano a che fare con la morte di Sopo, perciò il parroco doveva farsi i fatti suoi, senza nessuna asserzione e/o dichiarazione in merito a quel delitto: pena la sua incolumità!

Il rimorso attanagliò, nei mesi a seguire, la mente di don Raffaele; costui “sapeva” che un innocente stava espiando, in prigione, una gravissima colpa per un delitto che non aveva commesso e i suoi familiari vivevano di stenti.

Erano passati circa nove mesi, durante i quali il parroco, in ogni sguardo dei parrocchiani, avvertiva la mancanza di stima e “leggeva” quasi il disprezzo nei loro sguardi e nelle loro espressioni; “sapeva” che loro erano a conoscenza che egli era depositario di un segreto così grande e, mentre i delinquenti scialacquavano, un innocente pagava per un delitto che non aveva commesso.

Trovava difficoltà anche a celebrare la messa e lo attanagliava un rimorso continuo. Consigliato dai colleghi preti dei paesi vicini,  si recò dal vescovo  che gli  consigliò  di andare dalle autorità competenti di Monteleone per raccontare quanto aveva saputo in confessione, ma omettendo il nome di chi in confessione gli aveva raccontato ogni cosa, nonché il nome dei veri colpevoli, e asserendo solo che il detenuto Vincenzo Rombolà, non era l’uccisore del fratello Pasquale, che di quel delitto era assolutamente innocente.

Il giudice gli credette e mise in libertà Vincenzo, che, dopo nove mesi di detenzione, poté tornare a casa e abbracciare i derelitti familiari.

Don Raffaele Ruffa si liberò di un grave segreto che lo affliggeva e che aveva custodito nel suo cuore per circa un anno, e dopo pochi mesi morì.

Gli autori del delitto non furono condannati; in paese tutti “sapevano” ma mai qualcuno parlò, fingendo di non essere a conoscenza della cosa, e nessuno mosse accuse o testimonianze.

Gli sguardi, i comportamenti e i commenti della gente di Brattirò furono giudici implacabili e quasi tutti isolarono quelli che ritenevano essere gli autori del delitto.

Forse si avverò la maledizione della moglie di Vincenzo proferita quando il marito fu, ingiustamente, arrestato.

I quattro autori del delitto non vissero una vita tranquilla, e alcuni morirono in modo tragico: uno, cadendo davanti al portone di casa, si spaccò il cranio e morì; un altro morì per emorragia in un pagliaio; un altro morì per paralisi cerebrale (‘nci vinni u toccu) allora si diceva e, l’unico che diventò vecchio, visse una vita raminga e sempre in conflitto con la moglie e i figli…

Pasquale Vallone

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