“Le rose lasciale”

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Pubblico un brano del libro di Franco Pagnotta, “La meraviglia del poco”, volume da me pubblicato mesi addietro col marchio Mario Vallone Editore.

Il passo che ho scelto, perché mi ha molto emozionato, si intitola “Le rose lasciale”.

m.v.

L’amore per i fiori penso che me lo abbia insegnato lei, ma senza parlare. Lei, mia madre, lo faceva con quello sguardo che si posava all’improvviso sui petali gialli, rossi e viola assieme ad un sorriso appena accennato che sembrava stonare con la stanchezza di una giornata passata in campagna a lavorare quanto un uomo quando mio padre buttava sangue, sudore e nostalgia sulle strade di Milano, non quella da bere degli anni settanta, ma l’altra, quella della prima emigrazione, dei treni presi d’assalto, dei grappoli di famiglie posati sulle panchine di grigi binari a guardare verso la galleria, delle valige passate dai finestrini al compagno di viaggio, la Milano che fu il primo sole dopo la notte di una guerra senza fine e la fatica di una vita da ricostruire dalle fondamenta.

 

Erano gli anni delle separazioni di fatto, di padri che, tornati dai campi di battaglia e di prigionia, lasciavano mogli e figli e andavano verso le città del lavoro e di un mensile assicurato. A loro, alle spose che restavano al paese, rimanevano le strette di abbracci veloci e di promesse d’amore, il rossore per un bacio dato sull’uscio, ma anche il pondo dei figli da crescere e delle terre da coltivare.

Mia madre era una donna minuta, dolce ma anche forte ed energica, non si abbatteva davanti ad un ostacolo e non svendeva mai la sua dignità, anche davanti al padrone della terra rivendicava il diritto, prima di tutto, di dare da mangiare ai figli, lui poteva aspettare, per assaggiare i primi fichi o per riempire le casse di primizie.

 

Franco Pagnotta

Nei mesi in cui mio padre era a Milano, dunque, lei accudiva a noi, teneva in ordine la casa e faceva i lavori di campagna. Noi la aiutavamo per quello che potevamo. Di quel tempo di separazioni forzate ricordo lei mai ferma, sempre indaffarata, sempre con la testa a noi e a quello che doveva fare per non farci mancare niente, mai appariva dubbiosa o preoccupata, poche parole e quello sguardo che ti arrivava al cuore per rassicurarci, per farci capire che andava tutto bene, che era contenta di noi, i suoi figli che crescevano con la dignità del poco, ma un poco fatto bene, pulito, ordinato, senza orpelli da esibire, un poco che odorava di bucato fresco, di capelli asciugati al sole, di cartelle per la scuola e di fiori di campo.

 

I fiori, appunto. Non sono mai riuscito a dissociare la figura di mia madre da quella dei campi fioriti. E la vedo ancora, camminarmi nella mente, ogni tanto, mentre, nei tardi pomeriggi di primavera avanzata, dalla campagna percorriamo la stradina che riporta al paese, lei con la cesta leggera di poco e pesante di pensieri e noi che le facciamo corona davanti e dietro, a destra e a sinistra, attardandoci per la salita e la stanchezza o rincorrendo sogni e nidi tra le fronde di ulivi antichi.

 

La rivedo ancora, mia madre, una calda sera di maggio, in quell’angolo di prato, che si abbassa per raccogliere dei gigli di un fuxia tenue e delle margherite bianche e gialle.

E, prima di farne un mazzetto, li porta al naso, odorandoli con leggerezza e grazia. Li tiene stretti in mano fino a casa, poi, prima di preparare la cena, li mette in un vaso di vetro davanti alla statuina della Madonna di maggio, che si faceva girare per le case, a benedire fatiche, gioie, lacrime, progetti, sogni e speranze. C’era sempre un posto per i fiori, nella vita di mia madre.

 

Quando, qualche anno dopo, cambiammo terra – questa volta più vicino al paese – accanto al pagliaio, in un angolo sopra il sentiero, cresceva un piccolo e folto roseto, piantato chissà da chi, rose piccole e fitte, di un rosa chiaro, petali vellutati, di un profumo molto delicato. Era gelosa, mia madre, di quelle rose, le curava quanto gli ortaggi e il grano, quanto le olive che raccoglievamo una ad una. Le rose non si mangiano, pensavo, eppure lei ci tiene come al pane, come alla farina, come all’olio. E’ stato lì, credo, che ho imparato ad amare la bellezza in quanto tale, è stata lei ad educarmi il cuore alla poesia delle piccole cose, ad insegnarmi ad amare senza calcoli, ad ascoltare la voce dell’anima e a gioire per un sentimento nuovo.

 

Mario Vallone e Franco Pagnotta

Un giorno di fine estate mio padre decise di creare nuovi spazi per piantarci cavolfiori e rape e pensò di sfruttare quell’angolo di terra sopra il sentiero. Verso mezzogiorno mia madre, assieme a noi, scese in campagna e lo vide alle prese con la zappa proprio vicino al roseto. Ricordo che gli si avvicinò, decisa e dolce nello stesso tempo e, quasi implorandolo, gli disse: le rose lasciale. Lui sorrise sotto i baffi marroni come per rassicurarla, il roseto non lo avrebbe comunque toccato, conosceva bene il cuore della sua donna.

 

Da grande, quando pensai di farmi una casa nuova, lasciai attorno degli spazi verdi e ne feci delle aiuole dove piantai tante rose e, qua e là, dei bulbi di gigli. Un giorno, già avanti negli anni e stanca, mi chiese di venire a vedere a che punto erano i lavori. Era primavera. Quando arrivammo sul posto lei guardò dal finestrino della macchina e posò lo sguardo su quelle file di rose e di gigli. Gli occhi le si illuminarono.

 

L’aiutai a scendere dall’auto e l’accompagnai davanti alle aiuole. Sorrise, come faceva quando, molti anni prima, al ritorno dalla campagna, raccoglieva i fiori di campo. “Sta venendo bene la tua casa”, disse, prima di entrare per vedere la disposizione delle stanze. Poi le spiegai che avevo in mente di apportare qualche variazione al progetto iniziale per guadagnare spazio.

 

Lei mi puntò addosso e sul cuore quegli occhi piccoli, amorevoli e neri, e con un fil di voce, quasi impercettibile, mi ripeté quella frase che un giorno lontano aveva detto all’uomo della sua vita: le rose lasciale. Sono ancora là, ogni primavera rinascono, vellutate e profumate. E mi riportano la sua assenza. E la sua minuta bellezza.

Franco Pagnotta

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