La lezione impartita dal coronavirus

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Nicola Rombolà

Un parabolico viaggio nel tempo e nella storia a mo’ di attività didattica a distanza. Con le scuole chiuse si riapre l’antica scholé, il dialogo con un’istanza che interroga la post-modernità sulla fragilità della condizione umana.  Che cosa si impara restando a casa, isolati, in clausura, senza occupazioni pratiche e attività sociali e lavorative?  

Un insegnante non può smettere di esserlo anche se è costretto a restare lontano dalla aule scolastiche. E in quanto docente di Materie storico-letterarie  in un Corso per adulti (Ipseoa “E. Gagliardi” di Vibo Valentia) mi sono posto il problema di come fare didattica a distanza, che strumenti didattici e culturali adottare per analizzare la storia e la letteratura con lo sguardo del presente e in un momento in cui le chiavi o i paradigmi interpretativi del mondo vengono rimessi in discussione e per certi versi, ribaltati. Certo, ci sono le indicazioni ministeriali, con tutte le difficoltà che si possono incontrare nelle infrastrutture digitali delle differenti realtà scolastiche e nei contesti socioculturali di una Italia che ha molte facce e di una Calabria con un retroterra in perenne emergenza. La storia ci ha messo di fronte ad un evento che ha scardinato le false certezze  e fa emergere in modo dirompente le fragilità e le enormi contraddizioni che attraversano la condizione dell’uomo post moderno. E il coronavirus ne è diventato il segno forse metastorico, certamente emblematico, e rappresenta l’invisibile goccia che ha fatto traboccare il vaso. I programmi e i progetti si riplasmano come l’acqua, assumono forme sempre inaspettate e i contenuti si travasano secondo il principio fisico dei vasi comunicanti e quello antropologico della reciprocità. Per corrispondenza vale anche la legge fisica e psichica dello specchio: le immagini, i pensieri, le opinioni, le conoscenze, i sentimenti, la realtà esterna, sono speculari tra di loro, proiezione e riflesso. Non è che forse dobbiamo sperimentare una nuova forma di resistenza fisica e spirituale ispirandoci alla secolare e maestosa resilienza degli ulivi?

“La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni perché la crisi porta progressi. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere della crisi è esaltare il conformismo. Invece lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutta con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla” (Albert Einstein, “Il mondo come io lo vedo” 1931)

“L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono” (Ernst Bloch, “Il Principio Speranza” (1953-1959)

L’entrata in scena di un protagonista inatteso e il tempo dell’epoché Riflettendo e lasciando decantare il miscuglio di idee, pensieri e sentimenti, mi sono accorto che in questa situazione del tutto imprevista e inimmaginabile, a darci una lezione epocale è stato proprio un protagonista inatteso, invisibile: il Covid 19. Ed è con questa attesa che ho impegnato il mio tempo in una sorta di ricapitolazione, riavvolgendo e dipanando il filo, per cercare di trovare una possibile via di uscita al cospetto della crescente preoccupazione e dell’angoscia che ghermisce il futuro più prossimo. Si ripresenta così il tempo dell’epoché, della sospensione, come avevano immaginato  gli antichi scettici, data l’assoluta incertezza quando irrompe un evento non comprensibile con i tradizionali canoni interpretativi, come è accaduto nella Fisica contemporanea con la teoria della relatività e dei quanti, rispetto alla Fisica classica. L’auspicio è che ognuno di noi possa vivere questo periodo “in sospensione” con spirito propositivo e con la giusta misura, trarre risorse inaspettate, in grado di far fronte alle incertezze, ai timori e alla precarietà della condizione sia esistenziale che materiale in cui ci siamo venuti a trovare. In altre parole, e con una formula sintetica cara a Platone, quella insita al kata dynamin, in accordo con il nostro potenziale. In tal senso dobbiamo – e possiamo – diventare un po’ stoici: essere disciplinati, fare esercizi di resistenza, con l’impegno sul fronte civile, culturale e politico. Questo ci deve far riflettere sui veri significati che assume la vita e la convivenza civile al vaglio di ciò che è importante da ciò che invece risulta effimero, superficiale, banale, insignificante e infettante. Si pensi solo al valore che ora assumono la libertà di movimento o una stretta di mano. Adesso siamo costretti a restare a casa per non esporci al contagio. A farci compagnia è il senso di responsabilità collettiva e il nostro diritto alla libertà deve misurarsi con il diritto alla salute. Questi diritti ci fanno comprendere come siano strettamente intrecciati alla categoria antropologica della reciprocità: la mia salute è legata alla salute dell’altro, la mia libertà dipende dalla libertà dell’altro; quindi tutto è in relazione. Ecco perché è fondamentale la coscienza civica, una visione che superi l’individualismo, l’egocentrismo e anche l’antropocentrismo, che in questi decenni hanno generato divisioni, sfiducia, odi, sospetti e infezioni sociali, culturali e materiali. Sembra paradossale in una situazione in cui dobbiamo restare isolati, ma questa emergenza fa “emergere” l’importanza della solidarietà: il pericolo ci unisce “in social catena” (Leopardi, La ginestra). Riemergono con più forza i valori etici e civili e lo sforzo che ognuno di noi deve compiere per garantire il bene comune: il mio bene è connesso con il bene degli altri. Ed è proprio il sentimento della solidarietà, della condivisine, della cooperazione, che ha fatto evolvere gli esseri umani dalla condizione di ferinità, sviluppando il linguaggio. L’intelligenza e il senso di responsabilità devono essere messi alla prova contro la stupidità, la furbizia, la presunzione, l’indifferenza, il cinismo e l’imbecillità che sono sempre in agguato, sempre pronti a minare l’armonia e la fiducia tra le persone e nell’essere umano. È accaduto e accadrà. Spesso la storia, in situazioni di crisi, ci racconta che imbecilli hanno plasmato una massa di imbecilli verso la catastrofe. In una situazione di “privazione” in cui le attività produttive, sociali, gli incontri, le relazioni umane, sono fortemente condizionate e limitate, in attesa delle risposte della scienza medica affinché questa sospensione venga a sua volta sospesa e si ritorni alla apparente “normalità”, viene fuori il valore della filosofia, della letteratura, della storia, della cultura: per coltivare i rapporti nel tempo e nello spazio attraverso l’immaginazione, le risonanze e le corrispondenze con i sentimenti e con le emozioni, elaborando una riflessione meno superficiale e più profonda; ma anche fare esercizio su “se stessi”, di maieutica della solitudine, come una sorta di terapia di gruppo. Anche questa è una forma innovativa di didattica a distanza. Diventa così anche un’occasione per poter riflettere, meditare e approfondire la sfera interiore: meno esteriorità e più interiorità, per essere più allenati, più virtuosi nell’affrontare le crisi, e interrogarci facendo emergere quelle istanze che sono rimaste per tanti anni sospese o sotterrate, ma che aspettavano di essere indagate e scoperte. L’humus della feconda cultura: la scholé e il battito del futuro che reca in grembo il tempo Nell’emergenza l’humus della feconda cultura ci deve far crescere in modo nuovo, come in una sorta di palingenesi. Sono proprio i processi culturali che operano una trasformazione e un rinnovamento: creano relazioni, aprono orizzonti sconosciuti, fanno riflettere a partire dalla ricerca del significato etimologico delle parole con cui costruiamo la visione del mondo e ci relazioniamo al mondo. Ritornare alle radici delle parole significa approfondire il legame tra passato e presente, riattraversare la storia, per sentire il battito del futuro che reca in grembo il tempo. Accade ad esempio, se andiamo a rintracciare il significato originario della parola “scuola”, di scoprire che il termine greco scholè designava il tempo libero da impegni pratici per dedicarsi allo studio e alla riflessione. Lo stesso valore semantico ha assunto la parola latina otium (che si oppone a negotium): avere del tempo libero per prendersi cura di se stessi, fermarsi a riflettere, lontano dalle frenetiche attività lavorative o da altri impegni pratici. In questo modo si entra nel terreno più appropriato della cultura. Ma è importante osservare che, nella sua derivazione etimologica, la parola “cultura” è strettamente connessa alla cura dei campi, al sudore che i contadini versavano per lavorare la terra. Ne ha dato significativa spiegazione uno scrittore, Alessandro D’Avenia, nel libro “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita”: “I latini per “curare” usavano la parola colere, da cui cultum, da cui il termine “cultura” (l’agricoltura non era altro che il prendersi cura del campo). La cultura non ha nulla a che fare con il consumare oggetti culturali: ci si illude che consumando più libri, più musica, più quadri, si acquisterà cultura. Conosco persone che consumano tantissimi oggetti culturali, però questo non le rende più umane, anzi spesso finiscono con il sentirsi superiori agli altri. Cultura vuol dire stare nel campo, farlo fiorire, a costo di sudore. Significa conoscere la consistenza dei semi, i solchi della terra, i tempi e le stagioni dell’umano e occuparsene perché dia frutto e tempo opportuno. Nella cultura ci sono il realismo del passato e del futuro e la lentezza del presente, cosa che il consumo non conosce: esso vuole la rapidità e immediatezza, non contempla la passione e la pazienza.” La cultura quindi, non può essere concepita soltanto – come ormai sembra andare di moda – un consumo di libri, la miriade di festival, un marchio, un’etichetta, una sorta di privilegio aristocratico di chi frequenta le biblioteche, le università o le accademie per mostrare una magistrale erudizione  o uno status symbol; oppure un’identità sovranista o populista da esibire. Al contrario, se interroghiamo l’etimologia, la cultura porta nel suo grembo l’umiltà, la passione, l’onestà e l’impegno per il bene della terra, dell’anima e del corpo in una visione unitaria, comprensiva, inclusiva e non certo esclusiva. E quindi ci deve offrire gli strumenti per coltivare il futuro, con uno sguardo ecologico e maieutico capace di scavare e dare luce al solco della nostra esperienza. Senza impegno e passione non si traccia alcun segno in profondità e senza profondità le radici verranno sradicate alle prime intemperie. Il ritorno ad un tempo in cui si espia la “privazione” per redimersi, come dovrebbe accadere in tempo di Quaresima per i cristiani, richiama i versi del poeta romantico Friedrich Holderlin, nella nota lirica intitolata “Pane e vino”, in particolare nel passaggio dove pone la questione se la poesia possa essere utile in un tempo di “povertà”, come questo che stiamo vivendo: …. Ma spesso penso Se non è meglio dormire che stare senza compagni A languire in attesa: e che fare e che dire intanto Non so: e perché poeti nei tempi di privazione? Ma tu dici che sono come i sacerdoti sacri di Diòniso Che migrarono di paese in paese nella sacra notte. In questa società narcotizzata dall’ambizione sempre più smisurata ad essere performanti e veloci, in particolare attraverso i nuovi mass media grazie all’intelligenza artificiale, sospinta dall’imperativo egoico-narcisistico, è importante ritrovare il senso della collettività e ritornare ad essere semplici, umili, più frugali e sobri, più attenti alla sacralità del cibo, non solo perché soddisfa i nostri bisogni primari di sopravvivenza, ma soprattutto perché deve nutrire in modo sano, senza intossicare e avvelenare il nostro preziosissimo sangue che dà ossigeno ai polmoni e ai pensieri. Forse non a caso il Covid 19 attacca i polmoni, perché il paradigma della post modernità, quella che Zygmunt Bauman aveva identificato con la metafora di  “modernità o società liquida”, non è più in grado di dare respiro ai moti dell’anima,  ànemos, soffio, vento e pneuma, respiro, alito vitale. L’etimo ànemos ora si coglie negli anemoni, che in questo periodo donano il loro incanto nei campi incolti.

L’uomo si distingue dagli altri esseri viventi – alla luce delle conoscenze in nostro possesso e finché non saremo smentiti – non solo per la facoltà del linguaggio connessa a quella mnemonica, ma perché è capace di prevenire e curare, di intuire gli effetti che può produrre una parola, un verso, un gesto, un comportamento, un prodotto; cioè quando è in grado di immaginare la reazione ad una determinata azione. Non a caso Prometeo, che il mito ci presenta come il titano che ha donato il fuoco al genere umano, simbolo della tecnica e del progresso, è colui che prevede, è il previdente. Ma lo ha fatto attraverso un inganno e per questo è stato punito da Zeus. Il messaggio che ci viene consegnato da questo mito è che l’uomo, se non ha rispetto della sacralità, diventa smisurato, arrogante, presuntuoso, delirante. Il sentimento del sacro corrisponde all’essere coscienti dei propri limiti e si esprime come rispetto di ogni essere vivente, in quanto emanazione della scintilla divina per chi crede nelle potenze soprannaturali, oppure frutto di un disegno evolutivo o intelligenza immanente al creato, per chi ha fede nel linguaggio della natura. L’uomo, attraverso la tecnica, pensa invece di poter dominare la natura come un oggetto che può manipolare a proprio piacimento. Ma la natura è Madre, dimora abitata da presenze invisibili che ci fanno vivere, come il respiro , l’humus, l’energia misteriosa di una particella elementare secondo le teorie fisiche della relatività e quantistica, ma che possono anche minacciare la nostra sopravvivenza, come i microorganismi o la radioattività. Noi siamo parte di un tutto e in ogni parte c’è il tutto. In assenza di certezze scientifiche deve vigere il principio di precauzione, perché non sappiamo gli effetti irreversibili che si possono scatenare nell’ambiente umano e naturale andando a manipolare un gene o un atomo. Pensiamo soltanto agli effetti devastanti che ha provocato la bomba atomica senza contare l’inquinamento radioattivo e quello dell’ambiente a causa dell’uso sempre più spregiudicato delle risorse energetiche fossili dovute alle attività antropiche che non hanno alcun rispetto della sostenibilità ambientale.  Si pensi a quante patologie, tra cui tumori, sono provocate dall’inquinamento atmosferico, della terra e dell’acqua. Quello che deve emergere ancora, in questa emergenza, è il principio di precauzione ed il senso della misura, che ritroviamo nella responsabilità etica, nella cura, nella riflessione, nel dialogo, nella sensibilità estetica e umana, affinché possano rafforzare le difese immunitarie collettive contro i deliranti monologhi che imperano nell’agone digitale dei social, scimmiottando il culto della personalità di noti istrioni che hanno portato l’umanità al massacro. Con una parabola ci trasferiamo all’hic et nunc, a ciò che sta accadendo: è bastato un microbo a fermare una macchina infernale che ha generato catastrofi umanitarie e inquinamento. Eppure nessuno si sognava di arrestarla: lo spettacolo doveva andare avanti, a qualsiasi costo. La riflessione è questa: l’arroganza, la prepotenza e la stupidità degli uomini sono state dei virus ancora più infestanti e più letali del coronavirus, perché ha contagiato in profondità le coscienze, scatenando la hubrys  (il deliro di onnipotenza); e questa presunta civiltà non ha gli anticorpi per reagire di fronte a questa inarrestabile imbecillità che ha prodotto disastri come guerre, massacri di esseri innocenti, profonde ingiustizie, danni irreversibili all’ambiente che ricadrà sulle future generazioni. Tutto questo è passato nell’indifferenza e nella dimenticanza, in una sorta di amnesia o anestesia, tranne coloro che hanno protestato con instancabile passione cercando di sensibilizzare le coscienze e denunciando questa immane follia. Ma il resto della massa si è lasciato adescare, sedurre, contaminare e contagiare da una pandemia più devastante del Covid 2019 e di qualsiasi altra peste, la cieca e folle corsa al potere, lo spietato dominio insito in questo modello neoliberista, che ancora, nonostante lo scenario inquietante, non ha alcuna intenzione di fermarsi, perché dominata dal dio denaro, dall’avidità del profitto. E gli epigoni assertori delle “magnifiche sorti e progressive” (Leopardi, La ginestra) ancora non paghi, sperimenteranno ancora, sulla vita di tanta gente ignara, i loro diabolici progetti: “Il virus è arrivato nel momento in cui il pianeta sembrava convergere nella condivisa persuasione che la sola risposta alle minacce della globalizzazione consistesse nella ridefinizione di confini armati e di identità forti” osserva, in una approfondita riflessione, “Le virtù del virus”, il filosofo Rocco Ronchi (doppio zero.com, 8 marzo 2020). Siamo ammorbati da un materialismo spietato diventato una potentissima e invisibile droga, a diversi livelli e forme, iniettata nell’anima con dosi sempre più elevate finché non si provoca un overdose. Quanto sta succedendo ci ammonisce che abbiamo superato il limite. Solo per fare un esempio: nessuno dei “nostri” esponenti del Governo osa mettere in discussione la produzione di armi, mentre la sanità è al collasso. La produzione di armi è più importante della salute. Ma questa non è follia allo stato puro? Secondo la spietata logica del neocapitalismo, per garantire i mostruosi interessi di pochi plutocrati si preferisce mettere in pericolo la vita di milioni di esseri umani. Chi produce armi produce orrore, eccidi, genocidi, distruzione, inquinamento, catastrofi umanitarie (come in questo momento accade in Siria e nei paesi africani), criminalità, violenza, profonde ingiustizie e tutto questo viene ritenuto legale. E’ un continuo massacro come è successo sia nella prima che nella seconda guerra mondiale e in tanti altri ignoti scenari del mondo. Siamo di fronte a un orribile  gioco al massacro (la terza guerra mondiale a pezzi l’ha definita papa Francesco) ed è considerato normale. E la chiamano civiltà e realpolitik. Ecco che cosa si nasconde dietro il Pil: per gli interessi mostruosi di lobby oligarchiche, si sacrifica il destino delle presenti e future generazioni. Si pensi soltanto che l’ultimo rapporto Oxfan sulle povertà e sulle disuguaglianze nel mondo ha certificato che nel 2019 l’1% più ricco, come dotazione patrimoniale, detiene più del doppio della ricchezza netta posseduta da quasi sette miliardi di persone e che in Italia il 10% più ricco detiene oltre 6 volte la ricchezza del 50% più poveri degli italiani. Questa enorme disparità è destinata a crescere. Quindi ci ritroveremo che pochi plutocrati decideranno il destino di miliardi di esseri umani, come sta accadendo. E la chiamano democrazia questa immane ingiustizia, che nell’ultimo lustro ha assunto la forma degenerata e mistificante della oclocrazia, dei sovranismi e populismi. Il nuovo dominio nella post modernità si declina anche con il carattere “biopolitico”, il potere sulla vita. Ha approfondito questo concetto il filosofo Michel Foucault, spiegando come il potere, nell’epoca dello sviluppo del capitalismo, della finanza e dei mass media, controlla la produzione, la gestione e l’amministrazione del corpo umano e del corpo collettivo delle masse. Entrano in gioco i binomi malattia-salute, vita-morte. Si pensi ad esempio che il più grande controllo per restituire “salute” alla presunta purezza e superiorità della razza si è attuato nel corso della seconda guerra mondiale con “la soluzione finale della questione ebraica” attraverso uno sterminio di massa. Il controllo della vita si attua facendo leva sulla tanatocrazia, il potere di Thanatos, la morte. Ogni potere ha sempre oppresso gli uomini con la gestione della paura della morte. In questi ultimi tempi l’abbraccio fatale tra i colossi dell’agroalimentare e della farmaceutica rifondano questo potere: e il controllo si è spostato su un concetto più subdolo, quello del cibo e della salute, ma che in realtà si traduce nella gestione della malattia insita allo stesso sistema: senza patologie non ci sarebbe la vendita dei farmaci, e senza guerre quello delle armi. Lo stesso si dica del controllo ormai totale del corpo sociale attraverso le nuove frontiere cibernetiche dell’intelligenza artificiale. Il re è nudo? il gigante dai piedi di argilla e i tanti figli di Goebbels Il coronavirus fa emergere un altro inquietante paradosso: siamo di fronte al biblico gigante dai piedi di argilla (profeta Daniele) che ci dovrebbe far gridare che il re è nudo (secondo la versione della fiaba “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Andersen) ma solo gli occhi innocenti di un bambino lo possono smascherare, come quelli di Elisa e di Sara che anche loro hanno voluto lanciare un messaggio collettivo di speranza e di fiducia con  il simbolico disegno dell’arcobaleno e della casa, che sembra incarnare il valore di un nuovo patto di amore tra il cielo e la terra, in una visione in cui si stagliano la speranza e l’utopia come slancio essenziale dell’agire e del pensare, che ha ispirato il filosofo Ernst Bloch nel suo “Il Principio Speranza” (1953-1959) dopo aver vissuto sulla sua pelle l’orrore nazista: “L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono”.

Mentre fino a poco tempo fa il mito della superiorità, della grandezza della nazione, dell’identità romantica del popolo, erano mimetizzati con un inganno ben congegnato dai novelli cavalli di Troia, adesso il vero volto di questo colossale trucco è svelato. Ma il bluff fa bella mostra della sua menzogna e si compiace di esibirla, tanto solo pochi la vedranno e altri fanno finta di non vederla. Prendere coscienza significa non essere contaminati dalle falsità che ci vengono confezionate dai professionisti della manipolazione e della propaganda, con cui ci hanno raccontato che la felicità – o benessere – viene misurata con la produzione di fumo infestante, come avviene attraverso le speculazioni finanziarie, che viaggiano nell’etere della rete alla sessa velocità dei virus, intossicando e accecando le nostre facoltà intellettive. A ricostruire il mito sovranista della purezza, della sicurezza e della ricchezza ci hanno pensato gli ingegneri della mistificazione, i “maestri” figli di Joseph Goebbels, lo stratega della propaganda nazista, il quale aveva compreso, nell’epoca della società di massa plasmata dai mass media, che una menzogna ripetuta continuamente diventa una verità. Sotto la sua scuola tanti altri scienziati della manipolazione mediatica, ben asserviti a questi poteri malefici, hanno imparato la lezione del ministro della propaganda nazista. Ma niente di nuovo sotto il sole, anche Epitteto (filosofo greco, 50 – 125 d.C.) nel suo manuale – tradotto anche da Leopardi – ha spiegato che “la verità trionfa da sola, mentre la menzogna ha sempre bisogno di complici” e che “non sono le cose a turbare gli uomini, ma le loro opinioni sulle cose”. E tutti noi siamo stati complici di tante menzogne. È la storia, la cronaca e i dati di fatto, ma anche l’intelligenza (cioè la capacità di intelligere, di cogliere e leggere il dentro, la relazione) che ci rivelano questa oscura verità, non certo la passione per la dietrologia o la psicopatologia per il complottismo, evocato sempre dai soliti mistificatori accreditati per screditare chi osa mettere in dubbio questo intreccio demoniaco di poteri basato sulla corruzione, sulla violenza, sulla manipolazione, sull’ingiustizia, sulla criminalità, con le relative strategie per annientare la riflessione, il giudizio critico e il lume della ragione. Basta fare qualche esempio nella nostra storia repubblicana: la strategia della tensione e la questione della trattativa mafia- Stato, oppure la P2, che ancora sembra avere adepti, come è emerso con l’operazione “Rinascita-Scott” a dicembre scorso, coordinata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Adesso noi sappiamo e abbiamo le prove, parafrasando l’anafora dell’io so di Pier Paolo Pasolini, nell’articolo “Cos’è questo golpe? Io so” scritto il 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera: “Io so… Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi ) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che ceca di seguire tutto ciò che succede di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Ora che sappiamo non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla corruzione, alla zona grigia tra esponenti e rappresentanti delle istituzioni e quelli della criminalità che si riflette sulla drammatica condizione di precarietà e di disagio delle popolazioni, sul disastro economico, sociale e ambientale, e rivela come siamo continuamente ingannati, inondati di immondizie mediatiche, in particolare in Calabria. Se provassimo ad alzare lo sguardo e ci ponessimo ad un certa distanza, allora scorgeremmo il disegno che si nasconde nel labirinto. Questo sarebbe il ruolo e la responsabilità dell’intellettuale: ristabilire la logica dove sembra regnare l’arbitrarietà, per smascherare l’oscura o occulta regia che tira i fili  dei pupazzi e muove le macchine, come ha denunciato con coraggio Pasolini. Solo attraverso questo filos di amore possiamo uscire dal labirinto e accorgerci che dentro si occultava il Minotauro. Chi abitualmente vive nell’oscurità prova fastidio a far vedere il proprio volto alla luce. Come accade ai tanti che si nascondono o che agiscono negli oscuri sotterranei, le talpe umane. Il bene va sempre in cerca di fonti luminose per aprire i suoi petali, non può restare nascosto: “E’ bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie” ha intuito la filosofa e scrittrice Simone Weil. E per tastare il polso della reazione del corpo social  si sperimenta l’immunità di gregge o “l’effetto del gregge”, per monitorare non solo il comportamento, ma anche gli anticorpi che la massa produce di fronte ad uno stress-test come quello del coronavirus, per sottoporla ad una nuova forma di experimentum attraverso una soluzione o selezione, senza deportazione, come ha pensato bene di fare il Governo Inglese con a capo il primo ministro di puro acciaio inox anglico Boris Johnson. Siamo tutti figli di Adamo: quando la disubbidienza non è più la virtù di Pinocchio Sul teatro del mondo vanno in scena ridicoli burattini, ma al contrario di Pinocchio e delle sue puerili bugie, sono pronti ad ubbidire alle menzogne. Per parafrasare l’assunto di Lorenzo Milani ne La lettera ai giudici  “la disubbidienza non è più una virtù”. Allora è necessario illuminare il cammino perché non esiste bellezza e ricchezza nell’egoismo, nell’individualismo, nella paura, nell’oscurità, nella mitologia della sicurezza e del controllo ossessivo attraverso la più sofisticata tecnologia. È possibile che un banalissimo parassita come un virus si faccia beffa degli algoritmi, degli automi e di ogni altra super intelligenza artificiale? La risposta è lapalissiana. Sofocle aveva compreso già nel V secolo a. C. che “l’opera umana più bella è quella di essere utili al prossimo”. Questo principio che è il centro nevralgico del cristianesimo, l’amore verso il prossimo, ci deve raccontare quello che sta accadendo in questo tempo di privazione, di clausura. Ce lo rammentano anche i versi impressi all’entrata del palazzo di vetro dell’Onu, che sono del poeta persiano Saadi di Shiraz, (1203 – 1291), uno dei grandi mistici sufi: Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo,/ sono della stessa essenza./ Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo,/ anche le altre parti soffrono./ Se tu non senti la pena degli altri,/ non meriti di essere chiamato uomo. Il coronavirus ci insegna – se riuscissimo ad imparare senza imperare – che non ci sono muri invalicabili e tecnologie in grado di fermare il contagio. Ci dobbiamo affidare ad una tecnica primitiva che ha permesso all’uomo di sopravvivere, di evolversi e di immunizzarsi, quella che si scatena nella “social catena”: essere dono ed humus fecondo per far maturare un sentimento nuovo, infondere una rinnovata sensibilità umana e spirituale, e non soltanto in tempi di “privazione” dettati dalla paura del contagio. L’unico contagio che non deve far paura è quello di restare umani, di riscoprire l’anelito di essere utili al prossimo, perché in quel prossimo ci siamo tutti e nessuno di noi si può chiamare fuori, anche gli strateghi più raffinati alla Goebbels. Prendiamo lezione dalle Lettere a Lucilio dello stoico Seneca (visse nello stesso tempo in cui predicava Gesù, 4 a. C. – 65 d. C), in particolare nella lettera n. 90 sulla filosofia e sul progresso civile, dove esprime il rimpianto per la semplicità etica della vita primitiva quando gli uomini non praticavano ancora la tecnica e non conoscevano né dissolutezza né avidità e un tetto di paglia li rendeva sicuri. Allora si viveva in armonia “in umili capanne; le canne costituivano il tetto di uomini liberi: ora sotto il marmo e l’oro, abita un popolo di schiavi”. Sarebbe auspicabile ritrovare un rapporto autentico e armonioso con noi stessi e con le altre creature, per riscoprire che la libertà e l’armonia risiedono “sotto il tetto” del dialogo come misura della nostra humanitas: con il passato, con il presente, con il futuro e con il nostro principale e fondamentale interlocutore: Madre Terra, creatrice e creatura: “Nessuno, nel tempo del virus può pensare di salvarsi da solo, né può farlo senza coinvolgere la natura” ci ricorda ancora Rocco Ronchi, nel citato articolo. Questa situazione estrema ha cambiato i valori, la misura con cui abbiamo giudicato o pregiudicato il mondo che abitiamo. Pensiamo alle città considerate un tempo luogo di libertà, di opportunità, di passioni e di esperienze molteplici: adesso sono diventate delle prigioni, anche se coperte “di marmo e oro”; e come cantava Fabrizio De André in Via del campo “dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior”. E ripensiamo alle nostre piccole comunità semi abbandonate, destinate a morire, adesso possiamo riscoprire i rapporti umani, ci sentiamo meno inquieti e soprattutto, dialoghiamo con lo spirito fiorente e inebriante della natura che annuncia l’arrivo della primavera, della rinascita. In tempi di quaresima e di quarantena la natura ci fa dono della sua anima, ci fa respirare aria non contaminata, ci mostra con spontaneità e umiltà la meraviglia e l’incanto dei colorati e profumati fiori: ci fa entrare nel linguaggio sublime della bellezza e della poesia assoluta, di fronte a cui nessuna opera frutto di artificio, può essere comparata. Nel delirante e folle desiderio dell’homo sapienes sapiens di ambire a diventare al pari delle divinità, a dominare invece sono l’oltraggio, la cupidigia, la superficialità e la stupidità: “Circa 70.000 anni fa Homo sapiens era ancora un animale insignificante che si faceva i fatti propri in un angolo dell’Africa. Nei successivi millenni si trasformò nel signore dell’intero pianeta e nel terrore dell’ecosistema. Oggi è sul punto di diventare un dio, pronto ad acquisire non solo l’eterna giovinezza, ma anche le capacità divine di creare e di distruggere. … Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?” si chiede lo storico Yuval Noah Harari, nella conclusiva riflessione del suo ponderoso saggio “Sapiens. Da animali a dèi” (2017). Questa sottospecie di Sapiens ottuso post moderno, ama essere sedotto dalla bella favola che un giorno o l’altro sarà ricco e potente e potrà comprare tutto, la sua e l’altrui dignità, contrattando l’anima con Mefistofele come ha fatto Faust (nell’omonimo dramma scritto da W. Goethe). Il verso e il recto: dal topo al pipistrello. Pagine di letteratura al tempo del coronavirus  La filosofia, la storia e la letteratura ci aiutano ad avere una visione sempre più ampia, a cambiare sguardo, a vedere il mondo con occhi diversi, a sentire la sinfonia delle parole, ad ascoltare accordi misteriosi e fare continue scoperte. Un testo letterario ci rivela che la vita va guardata, indagata, interpretata, letta e raccontata in tanti modi, per immaginare un mondo che apre pagine sempre nuove. Lo rammenta lo scrittore Mario Vargas Lliosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010, in un saggio, “Elogio della lettura e della finzione”, scritto nel 2011: “Per non regredire verso le barbarie dell’incomunicabilità e affinché la vita non si riduca al pragmatismo degli specialisti che vedono sì le cose in profondità ma che allo stesso tempo ignorano ciò che sta loro intorno, ciò che sta prima e ciò che sta dopo. Per non diventare servi e schiavi delle macchine che noi stessi abbiamo inventato. E perché un mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mondo senza desideri né ideali né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in un altro, in altri, modellati dall’argilla dei nostri sogni”. Questa parabola ci riporta tra le pagine di un capolavoro della letteratura mondiale come il “Decameron” di Giovanni Boccaccio scritto nell’anno in cui l’Europa era infestata dalla peste nera (Yersinia pestis), bacillo parassita del topo, diffusa dall’estremo oriente lungo la via della seta attraverso le pulci che trovavano ospitalità nella pelliccia del roditore. In quell’occasione il primo focolaio si propagò da Messina dove approdarono le navi genovesi. Un topos questo, che nel caso dell’attuale coronavirus, si ripresenta sotto le sembianze di un pipistrello, che nella lingua tedesca è denominato “topo volante” e che in letteratura si è trasformato in vampiro. Il capro espiatorio è sempre pronto fin dai tempi più remoti. Le versioni cambiano ma la fabula non cambia. Quello della peste in letteratura è un leitmotiv che ha attraversato i secoli. Lo ha rispolverato Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”, e poi in tempi più recenti, Albert Camus (premio Nobel per la letteratura nel 1957) con il romanzo “La peste” (1947), in cui racconta il titanico tentativo di superare l’assurdo del male e il dramma esistenziale della disperazione e della solitudine umana, attraverso l’impegno e la solidarietà, valori che devono rinnovare i nostri sentimenti, per uscire dall’isolamento, ma soprattutto da tutte le visibili e invisibili pesti con cui l’uomo ha infestato il mondo e la sua anima, e affermare con Camus, che “ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare”. Questo romanzo ha lo straordinario potere di raccontarci l’esperienza che stiamo vivendo in questi giorni, ci offre delle risposte alle istanze esistenziali che ci angosciano, e ci aiuta a ritrovare le ragioni umane, etiche e morali di fronte ad una situazione che ha assunto i caratteri di enormità. E rappresenta un messaggio, in particolare per tutti coloro, impegnati in prima linea, che, “non potendo essere dei santi e rifiutando di accettare i flagelli, si sforzano tuttavia di essere dei medici”, ma con la consapevolezza che “il bacillo della peste non muore né sparisce mai”.

Per allargare questa visione alcuni testi hanno avuto la capacità di offrirci una riflessione sulla condizione storica ed esistenziale in diversi momenti della storia creando una corrispondenza con gli altri autori già citati.

Il primo autore è Giacomo Leopardi, con il suo testamento spirituale, scritto nel 1836, un anno prima della sua morte, La ginestra o il fiore del deserto. Si tratta di un testo epico-lirico, i cui versi spaziano in un’ampia riflessione sulle “magnifiche sorti e progressive” delle civiltà di fronte alla potenza della natura, mostrando la precarietà della condizione umana e denunciando l’arroganza e la presunzione dell’uomo. Al centro un accorato appello, un’esortazione a praticare l’amore fraterno per far fronte alle emergenze, alle sofferenza a cui va incontro l’umanità. La poetica del pessimismo cosmico si trasforma in utopia sociale. Sembra un’eresia accostare il sensista e l’ateo Leopardi con il messaggio evangelico, ma “La ginestra” è pregna del fondamento stesso del cristianesimo, alla luce della sua esperienza esistenziale. Emerge infatti il pathos che Leopardi ha impresso nei versi de “La ginestra”, considerando che è stata concepita quando la sua vita era già diventata un calvario. Quell’utopia sociale fondata sull’aiuto reciproco, rivolta a contrastare la presunzione del “secolo superbo e sciocco” (v. 53 ) per le “magnifiche sorti e progressive”, ci svela la condizione umana nel presente, l’attuale vanagloria degli uomini presi nel delirio di onnipotenza, intenti a farsi la guerra, massacrare esseri innocenti. Leopardi invita ad avere coraggio e onestà intellettuale: “Libertà vai sognando, e servo a un tempo/ vuoi di nuovo il pensiero,/ sol per cui risorgemmo/ dalla barbarie in parte, e per cui solo/ si cresce in civiltà, che sola in meglio/ guida i pubblici fati./così i spiacque il vero/ all’aspra sorte e del depresso loco/ che natura ci diè. Per questo il tergo/ vigliaccamente rivolgesti al lume/ che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli/ chi lui segue, e solo/magnanimo colui/ che se schernendo o gli altri, astuto o folle,/fin sopra gli astri il mortal grado estolle” (vv. 72-86)

Il secondo autore è Dostoevskij, con il suo romanzo più conosciuto I fratelli Karamazov. Nel passo riportato è potente l’invocazione ad amare le creature; implicitamente richiama il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi: “Amate tutte le creature divine, l’intera creazione come ciascun granello di sabbia. Amate ogni fogliolina, ogni raggio divino. Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa. Se amerete ogni cosa, in ogni cosa coglierete il mistero di Dio. E una volta che lo avrete colto, lo comprenderete ogni giorno di più, giorno dopo giorno. Arriverete, finalmente, ad amare tutto il mondo di un amore onnicomprensivo, universale. Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa e lasci la tua orma putrida dietro di te – purtroppo questo è vero per quasi tutti noi! Amate in special modo i bambini, giacché anch’essi sono senza peccato, come gli angeli; essi vivono per commuovere e purificare i nostri cuori e rappresentano una sorta di indicazione per noi. Guai a chi offende un bambino! Padre Anfimmi insegnò ad amare i bambini: quell’uomo dolce e taciturno, durante i nostri pellegrinaggi, amava comprare, con i soldini che ci avevano donato, dolcetti e caramelle da distribuire ai bimbi; passando accanto ai bambini egli non poteva fare a meno di provare emozione: ecco la natura di quell’uomo”

Il terzo autore è Italo Svevo. L’opera presa in considerazione è il romanzo “La coscienza di Zeno”, in particolare la parte conclusiva, in cui ha profetizzato alcuni avvenimenti catastrofici ed è una fotografia in bianco e nero di questa nostra età. Richiama in particolare il concetto di salute, di fronte ad una società infettata da una patologia inguaribile. “La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. … Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo… Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute”.

Il quarto autore è una donna dei nostri tempi, la poetessa Maria Angela Gualtieri che il 9 marzo 2020, il giorno in cui il governo ha deciso la quarantena per tutti gli italiani, ha scritto una lunga poesia ispirata al virus in cui il sottotesto evoca San Francesco, Holderlin, Leopardi, Dostoevskij e Svevo. In un certo senso li riassume, traduce il loro verbo, ci fa capire che la grande poesia è profezia, che l’umanità è stata già scandagliata in profondità dai miti e dalla cultura greca (tragedie, arte, poesia epica e lirica, filosofia) e gli archetipi, l’inconscio collettivo, teorizzati dallo psicoanalista Carl Jung, vengono ritradotti, ricodificati, rinnovati. I Corsi e ricorsi storici enunciati da Giambattista Vico ne La Scienza Nuova, ritornano a narrarci che il mondo in cui viviamo ha un’anima ciclica, come il tempo del ritorno, Aion, che il mito affianca a Kronos e a Kairos.

Nove marzo duemilaventi

Questo ti voglio dire ci dovevamo fermare. Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti ch’era troppo furioso il nostro fare. Stare dentro le cose. Tutti fuori di noi. Agitare ogni ora – farla fruttare. Ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo. Andava fatto insieme. Rallentare la corsa. Ma non ci riuscivamo. Non c’era sforzo umano che ci potesse bloccare. E poiché questo era desiderio tacito comune come un inconscio volere – forse la specie nostra ha ubbidito slacciato le catene che tengono blindato il nostro seme. Aperto le fessure più segrete e fatto entrare. Forse per questo dopo c’è stato un salto di specie – dal pipistrello a noi. Qualcosa in noi ha voluto spalancare. Forse, non so. Adesso siamo a casa. È portentoso quello che succede. E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo. C’è un molto forte richiamo della specie ora e come specie adesso deve pensarsi ognuno. Un comune destino ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene. O tutti quanti o nessuno. È potente la terra. Viva per davvero. Io la sento pensante d’un pensiero che noi non conosciamo. E quello che succede? Consideriamo se non sia lei che muove. Se la legge che tiene ben guidato l’universo intero, se quanto accade mi chiedo non sia piena espressione di quella legge che governa anche noi – proprio come ogni stella – ogni particella di cosmo. Se la materia oscura fosse questo tenersi insieme di tutto in un ardore di vita, con la spazzina morte che viene a equilibrare ogni specie. Tenerla dentro la misura sua, al posto suo, guidata. Non siamo noi che abbiamo fatto il cielo. Una voce imponente, senza parola ci dice ora di stare a casa, come bambini che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa, e non avranno baci, non saranno abbracciati. Ognuno dentro una frenata che ci riporta indietro, forse nelle lentezze delle antiche antenate, delle madri. Guardare di più il cielo, tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta il pane. Guardare bene una faccia. Cantare piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta stringere con la mano un’altra mano sentire forte l’intesa. Che siamo insieme. Un organismo solo. Tutta la specie la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo. A quella stretta di un palmo col palmo di qualcuno a quel semplice atto che ci è interdetto ora – noi torneremo con una comprensione dilatata. Saremo qui, più attenti credo. Più delicata la nostra mano starà dentro il fare della vita. Adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro.

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