Le sorgenti della conoscenza

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LE SORGENTI DELLA CONOSCENZA: PERCHE’ PASQUALE DIVENNE MILITANTE DI SINISTRA?
Pasquale D'Agostino
Pasquale D’Agostino

Passano i giorni col ritmo che sempre dopo la morte di qualcuno che hai amato e col quale hai affrontato discussioni infinite, dibattiti accesi, battaglie politiche vissute come decisive. E col quale hai scambiato sogni e delusioni, speranze e sconfitte, senza mollare mai.

Perché quelle fatte erano scelte di vita e ti restano nel cuore  e nella testa fino all’ultimo respiro.

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Cresce però, man mano che i compagni di una generazione vanno via, la voglia di capire meglio su quali conoscenze ha costruito la propria realtà di cittadino, di professionista, quali sono state le fonti delle sue conoscenze, i suoi valori fondanti, le motivazioni profonde delle scelte politiche.

Sempre per il lavoro, la democrazia,  le libertà. Il sogno, in particolare,  dei comunisti e dei socialisti  nell’Italia della Resistenza e della nascita della Repubblica.

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E qui affiora la sorpresa. Perché ti accorgi che le generazioni nate nell’ultimo decennio del fascismo e cresciute e maturate nei primi decenni della Repubblica, sono anche le ultime che hanno conosciuto l’aratro a chiodo, u pistapaniculu, la falce, il carro da buoi, gli asini al basto e con le  friscine e i varij, e maniscalchi e mulini ad acqua.

Un mondo complesso e ricco, che riempiva di reti di comunicazione villaggi e case sparse e dava risposte adeguate a bisogni di vivere. Anche con l’emigrazione.

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Quel mondo non era affatto privo di cultura e di saperi. Era semplicemente agrafo, per molti, soprattutto se donne.

Ma il coltivare i campi al meglio, l’allevare gli animali e i figli, i saperi delle maestranze – vignaioli, potatori di ulivi, estimatori di frutta, tessitori, braccianti, massari etc..  – erano articolati e precisi e davano coesione sociale e identità forti alle comunità di villaggio.

Anche i valori civili e sociali – l’onestà, il rispetto della parola data, i contratti siglati con una stretta di mano, il rispetto verso gli anziani, le donne, i bambini etc. – erano trasmessi con la parola e con l’esempio.

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Le feste dei Santi patroni, le fiere e i mercati regalavano anche momenti di gioia e allegria e trasmettevano balli e giochi alle nuove generazioni: tarantelle, valzer, tango, mazurca, trottola, birilli, scopone, tressette, briscola, sette e mezzo etc…

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La civiltà contadina è ancora integra nei suoi valori, nei suoi punti forti, nei suoi punti deboli, con i suoi vizi e le sue virtù.

La comunità di villaggio era un mondo da leggere e dal quale trarre modelli da seguire.

Cose ovvie. Le cose non ovvie per chi è estraneo a quel mondo sono i valori civili che ti offriva.

Dove?

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Vi sono dei luoghi deputati agli incontri nel Paese: la piazza della chiesa; a putija (alimentari); u tubacchinu; a taverna (la bettola), a funtana; u ponti; u campusantu; a cooperativa; u sindacatu; u variveri (barbiere); u sartu; u trappitaru; u parmentu, a jumara, etc…

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Sono tutti luoghi di incontro dopo la Santa messa e la festa del patrono, il lavoro, il lavoro, la spesa, il tempo libero e l’avvio verso il lavoro. Tutti luoghi dove la gente opera, discute, impara, insegna.

La società contadina crea un circuito perfetto tra tempi di vita, momenti religiosi, tempi di lavoro.

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Nella piazza della chiesa, per es., c’è il monumento ai caduti. Nomi e morti. Patria  e guerra. Onore e paura. Partenza senza ritorno. E li che abbiamo appreso che l’acqua intrisa di sangue dei fiumi delle battaglie si può bere da parte dei vivi. Solo dopo lo abbiamo letto in Tucidide e altri.

E su quelle lapidi che abbiamo visto il dolore delle madri e lo smarrimento e che abbiamo capito la tragedia della guerra.

La guerra vista dai soldati in prima linea. Sofferenza, fango, pietre, neve, filo spinato, sangue, feriti e morte. E pidocchi famelici.

E a casa attesa dolorosa e spasmodica di notizie o di una licenza. E funerali senza i corpi dei morti. Morti chissà dove.

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La fame l’abbiamo vista nei corpicini denutriti di bambini morti dopo meno di una settimana dal parto. Corpicini chiusi in una bara aggiustata con tavole raffazzonate e coperti  da un fazzolettino ricamato con amore senza speranza.

Le campane suonavano a gloria  e dietro il feretro, portato tra le mani dal padre o dalla madre, pochissime persone. Non si poteva abbandonare il lavoro per un bambino.

Già, il lavoro. Dall’alba al tramonto – da sole a sole  – con la strada da percorrere al buio. E la paga misera per tutti, ancor più per le donne e i giovani.

Non abbiamo dovuto aspettare di conoscere la canzone Se otto ore vi sembran poche,  per capire.

Gli elemosinanti, in giro per tutto il giorno, per campagne e paesi con un sacco vuoto da riempire per la carità di altri.

E poi le file di braccianti, uomini e donne, giovanotti tutti scalzi in marcia sui sentieri di colline ripide e lungo i corsi d’acqua di torrenti infidi per raggiungere il posto di lavoro.

I braccianti con le zappe sulle spalle e le pezze arrotolate al manico della zappa e la rasola nella tasca dei pantaloni. I potatori con l’ascia, il coltello da innesto.

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I fittavoli di agrumeti con patti jugulatori non avrebbero potuto raccogliere neanche le arance o altri agrumi caduti a terra dagli alberi. Perché al padrone preferiva che la frutta caduta marcisse nella nuda terra piuttosto che venisse raccolta per darla ai bambini e agli anziani delle famiglie dei fittavoli.

L’offesa alla fame e alla dignità dell’uomo era cinica e feroce; ma comandava il padrone.

E si riassumeva anche nel detto popolare u patrunu l’annu sulu i cani.

Perciò la rivolta era un dovere morale

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Da qui le radici sociali dell’emigrazione: i patti agricoli restano iniqui, i decreti Gullo sono insufficienti e allora si parte per il Belgio, per le Americhe, per Milano, Torino.

Anche la criminalità organizzata l’abbiamo conosciuta dal vivo. Naturalmente era quella storica del sutta a quali fibbia camminati?

Era facile scegliere, dati gli insegnamenti etici e morali che avevamo ricevuto.

La fibbia non era a favore dei ceti popolari, puzzava troppo di padroni. E noi eravamo contro i padroni e contro tutto ciò che ne sosteneva il potere.

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Altro fattore di conoscenza, che ci ha aperto gli occhi sulle conseguenze delle ineguaglianza e della povertà che la disuguaglianza crea e mantiene: cimitero. Uomini, donne e bambini poveri sepolti nella nuda terra. Altri, un pò meno povero, sepolti nelle locali della Congreghe. Altri ancora, i benestanti, nelle cappelle.

Spargevamo fiori e petali di fiori sulle sepolture fatte nella nuda terra. Ma l’ingiustizia umana feroce oltre la morte ci riempiva di rabbia.

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Una rabbia che i parroci tentavano di trasformare in rassegnazione alla volontà di Dio, i socialisti e i comunisti in rivolta politica contro gli sfruttatori.

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E così ascoltavamo in piazza o nella putija o dal calzolaio e dal barbiere o alla taverna, i socialisti e i comunisti e le lotte per il lavoro e la libertà e per la Resistenza e la Repubblica.

E ci fermavamo ad origliare dietro le finestre delle sezioni di partito e della CGIL.

Lì conosciamo Di Vittorio e Nenni, Togliatti e Gramsci, l’Unità e l’Avanti.

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Ma quel mondo ci raccontò anche le storie di Giufà. e di Orlando, di Guerin Meschino e di Bertoldo e l’emigrazione. Ancora fame e fuga dalla fame e speranza di una vita nuova.

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Apprendemmo dalla realtà anche l’importanza dell’acqua nei paesi privi di acqua pubblica, e delle fogne, e delle scuole, e degli alberi da salvare dagli incendi: tutti insieme chiunque fosse il colpito dal fuoco.

E imparammo a vivere con gli animali, le galline, i maiali, le pecore, le capre, gli asini, i muli, le mucche, i conigli, etc…

E con la cultura materiale: aratri, mazze, carri da buoi, basti, barche, botti, accette, etc…

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Poi abbiamo avuto la fortuna di studiare, per i sacrifici dei nostri familiari e per la politica scolastica della Repubblica. Ci avventammo come affamati sulla Bibbia, sui  classici greci e latini, su Dante, su tutto ciò che raccontava la civilizzazione e la storia dell’occidente.

Storici, scrittori, poeti, filosofi. Ci trasmisero tutto ciò che siamo riusciti a prendere.

Ma la fortuna straordinaria di quella generazione fu la capacità di imparare dalla vita. Fu questa che ci diede il metro di misura per distinguere tra maestri e falsi maestri presenti nella storia dell’umanità.

Maestri sono soltanto quelli che mettono al primo posto l’uomo e i suoi diritti intangibili e inalienabili, in primis la vita e la libertà.

Saverio Di Bella

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