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Ulivi e lacrime

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ULIVI E LACRIME

Credi nell’eterno, pianta un ulivo

Nazim Hiknet

Il prof. Saverio Di Bella

Quando ignoranza e stupidità guidano i destini di una comunità; quando queste doti abiette guidano anche la sete di guadagno i danni prodotti lasciano tracce e ferite nella terra e nell’anima.

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Drapia, comune ricco di ulivi, Provincia di Vibo Valentia, in Calabria. Fondi Cardillo e S. Agata / Santagaseu.

La Provincia decide di costruire una variante per la frazione Caria. Costo  dell’opera, chiavi in mano, più di quattro milioni di euro.

Il tracciato deciso è una bestemmia e un insulto al sudore e al lavoro di tanti piccoli proprietari divenuti tali con i soldi guadagnati dai loro padri nelle Americhe: la strada taglia i fondi in due e non lascia, in molti casi, accessi ai contadini. Non solo.

Distrugge ulivi e cancella un’intera collina sulla quale sorgeva un cimitero neolitico.

Cimitero, sulla carta, tutelato dal Piano regolatore o strumento urbanistico del Comune e dal piano paesaggistico della Regione Calabria.

Ma lo scempio è della Provincia e il sindaco pro-tempore del comune di Drapia non trova la forza di opporsi, di fatto tutte le autorità restano zitte inclusa la sovrintendenza ai monumenti, per la quale, deduttivamente, il neolitico e le sue testimonianze non sono meritevoli di difesa.

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Date le premesse e come previsto dai più i soldi sono finiti e della strada c’è solo il tracciato, incompleto, in terra e la squarcio crudele e immondo, osceno e sacrilego nella collina.

Tombe e resti della civiltà neolitica e degli antenati sono polvere. Polvere nella polvere.

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Ma non è finita. Alla base della collina che conservava le tombe neolitiche esisteva una corona di ulivi bellissima. Ogni pianta alzava verso il cielo rami lunghi e forti che si diramavano nello spazio da tronchi possenti.

Olive e olio davano ricchezza alla famiglia contadina che coltivava il fondo.

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La corona di ulivi non esiste più.

Lame assassine hanno reciso rami e tronchi e i tronchi sono monconi abbarbicati alla terra.

Inutile chiedersi il perché.

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Ha  pianto. Era nata nella casa colonica del fondo Santagata / Santagaseu quando nelle campagne non c’era energia elettrica né acqua. Ha raccolto olive quando le manine erano così piccole che poteva contenerne 2/3, versate accuratamente nel piccolo paniere ricevuto in dono.

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Il suo cuore aveva già sentito i morsi del dolore quando aveva visto le mura dirute della casa nella quale era nata e nella quale era vissuta insieme ai familiari prima di emigrare; quando, all’inizio dei confini del fondo, aveva osservato l’agrumeto incolto e le spine cresciute dove una volta come nelle fiabe c’era l’orto.

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Ricordava la nonna, il padre, la madre, il fratello, le sorelle e se stessa irrigare gli ortaggi attingendo l’acqua da un fosso cu bardu (cfr. bugliolo) e passandosela di mano in mano, a catena.

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Ma non sospettava e non si aspettava la morte degli ulivi. Ne conosceva la bellezza e la forza. Sapeva che non ci sono spine  o altre piante che possano contrastarne il dominio.

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Ma non vide il verde argenteo delle foglie aprirsi la strada verso l’azzurro del cielo e non sentì il fruscio di rami e foglie  nella brezza leggera dell’estate. E non vide in volo cardellini e uccelli, né sentì il loro canto.

Non udì neanche il frinire delle cicale.

Intuì che quel silenzio era un silenzio di morte. Intuì che la distruzione non era limitata al cimitero degli antenati, alla collina profumata d’erica e ricca di origano e di ginestra né alla casa natia: lo scempio era totale.

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Guardò ciò che restava dei tronchi degli ulivi e il bianco del legno nella terra nera, con un occhio aperto verso il cielo e pianse.

Le sue lacrime irrorarono legno e terra, nelle cui viscere stavano, nascoste e sicure, le radici.

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Fu allora che sentì, fortissimo, il profumo degli ulivi. Degli ulivi in fiore. E dell’olio nel frantoio e delle olive prelevate dalla giara e portate in tavola: un profumo di vita.

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E capì, sperò e seppe che da quella rovina, dai monconi dei tronchi, dalle radici ancora vive, dal ventre della terra madre di quegli ulivi assassinati sarebbero spuntati virgulti che avrebbero ridato vita a nuovi ulivi.

Nel tempo.

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Tempi lunghi per avere alberi possenti; tempi brevi per rivedere il trionfo della vita sulla morte.

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Altri uomini avrebbero risposato l’ulivo.

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È a Genova oggi quella che fu una ragazza cresciuta tra ulivi e aranci, origano e melanzane. È a Genova con sorelle  e fratelli. Ma nel suo cuore e in quello dei suoi familiari uno spazio immenso è occupato da Santagaseu. E piange per gli ulivi uccisi.

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Io non so se leggeranno mai queste parole, Michele, Bettina, Maria, Mammina..

Voglio loro confessare che ho pianto anch’io: di rabbia e non solo di dolore.

Il dolore per la profanazione dell’antico cimitero e per lo sterminio degli ulivi, coltivati, potati, e con le ulive raccolte anche dalla mia famiglia dopo la vostra partenza.

Di rabbia perché è intollerabile che un ente pubblico sia trasformato in un nemico della storia e della natura.

 

Saverio Di Bella

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