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Brattiroese…Partigiano, Educatore e Sindaco

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AMICI, NUMEROSI LETTORI DI QUESTO BLOG, MI RIVOLGO SOPRATTUTTO AI COMPAESANI BRATTIROESI SPARSI IN GIRO PER IL MONDO. QUEST’OGGI, VOGLIO – CON FIEREZZA, EMOZIONE E ORGOGLIO – RIEVOCARE E CONSEGNARE ALLA STORIA DEL NOSTRO PAESE LA FIGURA DEL MIO NONNO MATERNO: FRANCESCO ROMBOLA’, CHE QUASI TUTTI VOI (SICURAMENTE I MENO GIOVANI) RICORDERANNO.

EGLI HA COMBATTUTO IN GUERRA, E’ STATO PARTIGIANO, POI INSEGNANTE, EDUCATORE DI DECINE E DECINE DI BRATTIROESI, ED ANCHE SINDACO DEL COMUNE DI DRAPIA.

RIPORTO, A TAL SCOPO, UN EXTRACT DEL LIBRO “IL FILO D’ORO DELLE GENERAZIONI”, SCRITTO DA MIA MADRE, MARIA ROSARIA ROMBOLA,’ E – OVVIAMENTE- PUBBLICATO DALLA CASA EDITRICE DA ME AMMINISTRATA, LA THOTH EDIZIONI.

BUONA LETTURA.

MarioVallone

“…Il filo d’oro di una continuità di insegnamento scolastico ininterrotta, che raggiunge e supera i cento anni, ha inizio, dopo Maria Teresa Tambuscio, con Francesco Rombolà, secondo nella linea delle quattro generazioni di insegnanti della mia famiglia. Egli fu nipote della maestra Tambuscio, non di sangue ma acquisito, in quanto sposò, il 3 ottobre 1940, la nipote di lei Pasqualina Rombolà. Francesco e Pasqualina Rombolà erano i miei genitori. Francesco Rombolà (“u maistru Ciccu”) nacque il 27 marzo 1912.

Frequentò la scuola media presso il collegio “Filangieri” di Vibo Valentia e proseguì gli studi al liceo classico “Torquato Tasso” di Salerno conseguendo la Maturità.

Iscrittosi all’università di Messina, alla facoltà di Medicina e Chirurgia, dovette presto, purtroppo, abbandonare gli studi (nonostante vi si dedicasse con entusiasmo e passione) a causa di un  improvviso tracollo economico della famiglia.

Nel luglio del 1935, conseguì, a Vibo Valentia, il diploma magistrale e cominciò, subito dopo, ad insegnare alla scuola elementare.

Egli si dimostrò, quasi subito, un maestro motivato e preparato, ma forse senza, diciamo così, “il forte impatto diretto” con la maestra Tambuscio non sarebbe mai diventato quel maestro grande e benevolo che fu, degno successore di Maria Teresa Tambuscio.

Ella lo amò fin da subito non come un nipote acquisito ma come un figlio, e lo accolse nella sua casa appena sposato con l’amata nipote Pasqualina, dove egli mise su famiglia e vi abitò fino alla morte.

Dalla maestra Tambuscio Francesco apprese la didattica completa e verace da applicare giorno per giorno entrando in una classe. Da lei assimilò l’onestà, la legalità ma, innanzitutto, la passione e l’amore nell’insegnare e nel saper svolgere questo compito come una missione anziché come un lavoro qualsiasi.

Ed ella trasmise a lui, per primo, i principi basilari ed umani della figura paterna del maestro e il concetto di ciò che deve (o dovrebbe) sempre essere la scuola e tutti i suoi componenti, cioè il ruolo di primaria importanza e la funzione, importantissima, da svolgere in una società civile.

Così Francesco iniziò ad insegnare conscio di questi principi e sotto la guida e i consigli della maestra Tambuscio. Egli fu ricordato, ed è ricordato ancora da generazioni di ex alunni di Brattirò, per la sua bontà, la sua umiltà, l’amore verso i suoi alunni e il modo di trasferire loro il sapere, cioè proprio per il modo di “fare scuola”, in una parola, di insegnare.

Molti ex alunni “du maistru Ciccu” (come fu sempre affettuosamente chiamato) ricordano e rievocano ancora, dopo molti anni, le sue lezioni svolte in una maniera del tutto particolare, quasi come un gioco piacevole, un momento ludico fuori dal tempo e immerso nell’incanto dell’attimo che non scorre e si perpetua nel dilatarsi infinito della mente e del cuore.

<<Oggi, bambini, vi spiegherò il perché ci sono il giorno e la notte; l’autunno e l’inverno, la primavera e l’estate. Ecco un’arancia, grossa e tonda, ed ecco una candela accesa. Immaginate che l’arancia sia la terra dove viviamo e la fiamma della candela il sole che la illumina e la riscalda.

Ora, facciamo girare l’arancia su se stessa tenendo ferma la candela. Guardate: metà dell’arancia è illuminata mentre l’altra metà rimane in ombra.

Questo significa che la metà in ombra rappresenta la notte e la metà illuminata il giorno. Essi si alternano ogni dodici ore, ecco perché abbiamo il giorno e la notte. >>

Più o meno così il maestro Francesco Rombolà, quasi il “figlio adottivo” della maestra Tambuscio, era solito spiegare, ai suoi alunni, perché ci sono il giorno e la notte.

Un modo certo semplice ma di grande efficacia e di sicuro apprendimento.

Infatti, i bambini ascoltavano le sue parole e guardavano le sue mani, che tenevano la candela accesa e muovevano l’arancia, come rapiti, apprendendo una complicata legge della fisica e, insieme, divertendosi molto senza sentirsi appesantiti da una lezione troppo pedante o rigida.

Un altro esempio del modo di insegnare e della lezione lieve del maestro Francesco Rombolà verteva sulla legalità e sul senso dell’onestà, che possono benissimo essere insegnati alle persone fin da piccoli e in una maniera che difficilmente poi potranno dimenticare nel corso della vita.

<<Bambini, oggi vi parlerò del senso di onestà e della legalità che tutti dobbiamo imparare e mettere, soprattutto, sempre in pratica in ogni circostanza della vita, anche la più tragica e la più terribile, altrimenti la società civile va in frantumi e si avrà la sopraffazione del più forte sul più debole; del più ricco sul più povero; del prepotente sull’umile; dell’ignorante sul colto. Adesso scriverò alla lavagna un esercizio di grammatica. Tutti voi dovete copiarlo, poi io controllerò se nel copiarlo avete fatto degli errori. Chi ha fatto un solo errore riceverà un leggero colpo di bacchetta sul palmo della mano; chi ha fatto due errori ne riceverà due; chi ha fatto tre errori ne riceverà tre e così via. Chi, invece, non ha fatto nessun errore, per un senso di onestà e di legalità, non riceverà nessun colpo di bacchetta sul palmo della mano ma solo una bella lode. Su, avanti. Cominciamo>>.

E tutti con la penna sul foglio del quaderno e gli occhi puntati un po’ sulla lavagna e un po’ sulla scrittura, nell’entusiasmo generale.

Alla fine della lezione e dopo aver rilevato gli errori o meno, il maestro, come promesso, applicava le regole stabilite in precedenza: un lieve colpo di bacchetta sul palmo della mano o una bella lode.

E bisogna precisare, a detta dei bambini ormai divenuti adulti e con tale ricordo indelebile, che quasi nessuno faceva mai più di un errore o due nel copiare l’esercizio alla lavagna; a volte nemmeno quell’uno o due, anche i più svogliati o i più disattenti e perfino quelli che oggi sono riconosciuti come “diversamente abili!”

Poi, però, (e qui stava il perno dell’insegnamento e dell’educare a questi principi) il maestro ripeteva la lezione in senso opposto:

<<Bene. Avete fatto molto bene. Ora, invece, scriverò alla lavagna sempre lo stesso esercizio ma con molti errori. Voi dovete copiarlo di nuovo e, questa volta, per ogni errore che troverete sarò io a ricevere, da chi trova l’errore o gli errori, un colpo leggero di bacchetta sul palmo della mano, perché l’onestà e la legalità devono essere principi uguali per tutti senza alcuna distinzione e di nessun genere. Su, bambini. Si ricomincia>>. E di nuovo a copiare con entusiasmo e con attenzione, sicuri nel mettere in pratica la punizione o la lode (se non si riusciva proprio a trovare nessun errore), a sua volta, nei confronti del maestro, esempio davvero impeccabile di educazione all’onestà e alla legalità. Principi che egli applicò, principalmente, su se stesso e nei momenti più critici della sua vita e della nazione.

Dal Giornale della Classe dell’insegnante Francesco Rombolà, anno scolastico 1941 – 1942, nelle pagine dedicate alla “Cronaca ed osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola”, in data 27 gennaio 1942, si legge questa breve nota scritta a penna: “Poiché richiamato alle armi, lascio la scuola; parto con la certezza della nostra vittoria e del fulgido tripudio delle armi italiane. Viva l’Italia!”.

Dopo l’8 settembre 1943, in un’Italia fascista ormai allo sfacelo, nel caos più completo e già nella morsa di una sanguinosa guerra civile, il capitano Francesco Rombolà, in quei giorni a casa in licenza per malattia, nonostante l’insistenza dei famigliari e degli amici a non partire vista la situazione disastrosa della nazione e i consigli, in tal senso, anche di semplici conoscenti, lasciava il paesino di Brattirò e si presentava al Comando Supremo delle Forze Armate di stanza a Verona, rispondendo a famigliari, amici e semplici conoscenti: <<Se io, il capitano, abbandono per primo la nave che affonda cosa si potrà sperare da tutti gli altri, da ciascuno e da chiunque? Se io rimango qui, anche in questo momento tremendo in cui non esistono più valori, principi, doveri o punti di riferimento, sarà stato vano quello che ho insegnato, finora, a scuola>>.

Diversi bambini con vari handicap mentali che rifiutavano totalmente la scuola hanno imparato a leggere, a scrivere, a far di conto e a vivere correttamente nella società proprio per i meriti del maestro Francesco Rombolà, il quale con infinita pazienza e altrettanto amore alla maniera di un padre affettuoso e premuroso riuscì a, diciamo, “prenderli per il verso giusto” e a farli, primo: entrare nella classe e a sedersi al banco insieme agli altri bambini; secondo: a fugare piano piano tutte le loro paure consce o inconsce, a mitigare, prima, e a spazzare via, dopo, la loro innata o indotta aggressività; terzo: ad invogliarli ad applicarsi alla lettura, alla scrittura e ai numeri per riuscire, così, ad essere come tutti gli altri bambini e a venire accettati, integrati ed amati da questi non solo nell’ambito della classe ma anche al di fuori della scuola, cioè nei giochi di gruppo nelle piazze e nelle vie del paesino.

Mi preme ricordare un episodio, di una certa rilevanza, che riguarda un alunno che aveva avuto, in precedenza, dei problemi sia con l’insegnante sia di adattamento alla classe che nel seguire le lezioni.

Egli non riusciva più a seguire le lezioni e rifiutava il rapporto diretto con la propria maestra. Aveva quasi preso in odio la scuola tanto da non volerla più frequentare.

La maestra lamentava in esso forti lacune in ogni materia ma principalmente in matematica, affermando che il bambino non avrebbe nemmeno imparato le operazioni aritmetiche più semplici.

Il padre del bambino, disperato, si rivolse all’insegnante Francesco Rombolà, “u maistru Ciccu”, il quale si mostrò disponibile ad accogliere il figlio nella propria classe per l’anno scolastico successivo.

La cosa può sembrare incredibile, potrebbe addirittura essere vista come una specie di miracolo; fatto sta che il maestro Francesco Rombolà riuscì a fugare tutte le paure più terribili, le fobie più inconsce del bambino nei riguardi della scuola, della matematica e dell’insegnante!

Ma non solo.  L’alunno fu, già dopo un  anno, fra i primi della classe e, meraviglia delle meraviglie, divenne così bravo in matematica da amare la materia come non mai e con costanza nel tempo. Infatti, terminati gli studi superiori e conseguita la Maturità, si iscrisse all’università alla facoltà di ingegneria laureandosi con il massimo dei voti.

Egli è stato uno stimato ingegnere e un buon insegnante di matematica (è ormai in pensione da qualche anno) e non manca mai l’occasione di raccontare la sua vicenda personale tra i banchi della scuola elementare, il suo rapporto quasi filiale con “u maistru Ciccu” e di come questi lo abbia “salvato”, per non dire proprio “miracolato”, aiutandolo a sviluppare, pienamente e in tutta libertà, le sue facoltà intellettive e di ingegno piuttosto acuto, altrimenti non comprese e bistrattate.

Come dimenticare le ore passate in classe durante le lezioni del “maistru Ciccu”!

Come riuscire a dimenticare mai la sua innata bontà e premura paterne, la sua dolcezza sincera, la sua umanità infinita!

La scuola, con lui come maestro, era quasi una piccola oasi in mezzo al deserto, un minuscolo paradiso in terra dove si imparava con gioia, si studiava con buon umore, ci si rispettava e ci si amava a vicenda come la cosa più naturale del mondo.

Egli era solito portare i bambini della sua classe in cima alla collinetta che sovrasta Brattirò, da dove si può spaziare con lo sguardo in tutte le direzioni e su un paesaggio naturale davvero unico (lo stesso che colpì molto Maria Teresa Tambuscio in quel lontano giorno di agosto dei primi del Novecento ormai alle porte di Brattirò) e, da lassù, tenere ogni volta una lezione di storia e di geografia.

<<Bambini, ad ovest vi sono le isole Eolie con il vulcano Stromboli; ad est vi è l’altopiano del Poro; a nord il golfo di S. Eufemia e a sud la Sicilia con il, perennemente innevato, vulcano Etna. Dal mare laggiù, all’orizzonte, millenni fa vennero i greci con le loro navi triremi e colonizzarono queste terre spargendo i loro semi di civiltà, di cultura e di sapere universale. Chiamarono la nostra Calabria “Magna Grecia”, ossia la Grande Grecia, e vi costruirono città, porti, avamposti. Vi portarono le lettere e la filosofia; i loro miti e le loro leggende; i loro poemi immortali e il loro stile di vita raffinato e superiore. Secondo un’antica leggenda, pare che abbiano fondato anche il nostro villaggio. Quindi, Brattirò ha un’origine molto antica se le leggende sulla sua fondazione risalgono già a molti secoli prima di Cristo>>.

Quanto doveva colpire (e a fondo) l’immaginazione dei bambini questo racconto e in uno scenario naturale selvaggio, incontaminato eppure ricco di storia, di miti, di leggende!… Così tanto, in anni e anni di insegnamento e a generazioni su generazioni di bambini, che uno di questi, omonimo del maestro, Francesco Rombolà, deciderà affascinato, principalmente a motivo di ciò, di intraprendere la carriera di insegnante. Egli fu, fin da subito, uno dei più bravi e valenti insegnanti di Lettere, al liceo, della zona. Portò sempre nel cuore il ricordo, lieto e dolce, del suo maestro e di quelle lezioni di storia e di geografia tenute in un ambiente naturale in armonia, in pace, in serenità e spensieratezza da un maestro così particolare e tanto diverso dagli altri; e lo trasmise anche alla sua famiglia: alla moglie e ai quattro figli, che oggi sono adulti e affermati professionisti in diverse città italiane. Il professore Francesco Rombolà, omonimo del maestro, è morto ancor giovane e in pieno servizio. Ma non solo. Egli cadde fulminato da un infarto, proprio in classe, mentre teneva la sua consueta lezione di latino al liceo scientifico “Fratelli Vianeo” di Tropea. Morte di certo non comune per un  professore, ma, forse, onorevole e dignitosa, per chi ha insegnato con passione e ha visto nella scuola la fucina del sapere, dei valori e dei principi della più alta civiltà umana.

Francesco Rombolà (“u maistru Ciccu”) morì il 26 luglio 1975 quasi alla soglia della tanto auspicata pensione e il meritato riposo dopo decenni di insegnamento ineccepibile alla scuola elementare, compianto dagli ex alunni di ogni anno scolastico, dagli amici, dai paesani e dai conoscenti.

Il Circolo Didattico di Tropea, il 7 giugno 1975, al termine dell’anno scolastico, gli conferì una medaglia d’oro e indisse una cerimonia di commiato, con tanto di rinfresco, per i maestri che, in quell’anno, chiudevano in bellezza la loro carriera scolastica. Egli non poté essere presente perché ormai alla fine della vita, minato dal cancro ai polmoni che lo tormentava da più di un anno. Vi parteciparono le figlie: Maria Rosaria e Francesca Rita. Sul petto di quest’ultima, una bambina di appena undici anni, il Direttore Didattico appuntò la medaglia d’oro che il Circolo conferiva al suo papà per meriti di insegnamento. La cerimonia si svolse nei locali della scuola elementare di Tropea. Il vuoto che Francesco Rombolà lasciò nella scuola tutta: gli alunni, i colleghi, il personale non docente fu incolmabile. Ci volle molto prima che ogni cosa tornasse alla normalità, dopo la sua morte, e che i cuori rappresi da tanto dolore e dalla prematura scomparsa di un insegnante così ligio al dovere e benemerito ritornassero a battere al ritmo consueto e ad essere pieni di speranza e di fiducia nella vita e nel futuro. La figlia minore del maestro Francesco Rombolà (mia sorella Francesca Rita), risentì, in modo profondo e duraturo, della morte e del padre e del maestro, poiché per lei Francesco Rombolà era stato, infatti, sia padre che maestro in quanto ella aveva frequentato i cinque anni della scuola elementare proprio nell’ultima classe, (prima del ritiro pensionistico) del “maistru Ciccu”.

Perdere a quell’età (undici anni) un padre e insieme un maestro non è frequente e non è da tutti. Per cui, e il padre e il maestro, hanno lasciato in lei quel lieto ricordo indelebile conservato in un magico sogno avviluppato di eternità.

Il metodo, esemplare e umano, di insegnamento di Francesco Rombolà, nipote acquisito e “figlio adottivo” della maestra Tambuscio, forse non era finito con lui, non era terminato con la sua morte. In me era già stato gettato il seme dell’insegnamento scolastico, dell’amore verso la scuola, della passione di trasferire agli altri ogni forma di sapere; ed era stato gettato proprio da lui.

Infatti, quando lui morì, nel 1975, io ero insegnante, passata in ruolo proprio in quell’anno e, com’era allora logico, ancora del tutto ignara che quello stesso seme, un giorno, sarebbe cresciuto così tanto, trasferendosi poi nei miei figli Cosmo e Giuseppe e dando i suoi frutti copiosi…

Maria Rosaria Rombolà

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