Collodi…

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Il secondo capitolo di un libro che ho pubblicato di recente col marchio Mario Vallone Editore, intitolato “Maestri di color che sanno – contributi vari all’educazione ed alla Pedagogia”, scritto da un autore originario di Drapia ma residente a Milano di nome Franco Messina.

ALTRE INFO SUL LIBRO

Capitolo II:  COLLODI

     CARLO LORENZO FILIPPO GIOVANNI LORENZINI nasce a Firenze il 24 ottobre del 1826, da Angiolina Orzali e Domenico L.

     A undici anni viene mandato nel seminario di Colle Val d’Elsa. Poi a Firenze dagli Scolopi. Ma Carlo non concluderà mai un regolare corso di studi: sì che Luigi Santucci può ben parlare di “disordinata formazione culturale”. Tuttavia, scrive M. Gabriella Panzini: “a dieci anni era già noto ai suoi coetanei come un efficace narratore di novelle e novelline, colte dalla viva voce del popolo, narrate con tale vivezza di immagini, facilità di linguaggio e ricchezza di particolari, che il suo piccolo  uditorio ne era entusiasta e si accresceva ogni giorno di più”.

     Ha vent’anni quando viene chiamato a collaborare alla “Rivista di Firenze”: ha così inizio la sua carriera di giornalista.

     Combatte nelle prime due Guerre d’Indipendenza. Tornato dal Fronte fonda Il Lampione, con lo scopo di “far lume a chi brancolava nelle tenebre”: presto soppresso dalla Polizia austriaca. Qualche tempo dopo prova a farlo rinascere, ma il giornale è nuovamente soppresso.

     Nel 1848 muore Domenico Lorenzini: Carlo, che è il primogenito, deve assumersi l’onere di capofamiglia. Così nel ’50 ottiene un impiego presso il Senato toscano. Nel frattempo, collabora a vari periodici.

     Dal 1859 in poi firmerà sempre con lo pseudonimo di Carlo COLLODI; anche se una prima volta lo aveva fatto occasionalmente nel ’56, in un articolo sul Lampione. Nel 1860 ottiene un altro impiego che manterrà ininterrottamente fino al 1881: anno del suo congedo definitivo. E’ chiamato pure a far parte della Giunta per la compilazione del “Novo Dizionario della Lingua italiana secondo l’uso fiorentino”.

     Nel 1875 i fratelli Paggi gli affidano la traduzione dei Racconti di Perrault. Nascono I Racconti delle Fate: ed è il momento che “segna il primo felice incontro dell’arguto Scrittore toscano col mondo della fanciullezza, con le forme del meraviglioso fiabesco”, annota Italiano Marchetti. E il Collodi (non più Lorenzini) non fa una traduzione pedante di quelle fiabe, ma un rifacimento come solo lui sa fare. In breve: da un capolavoro (le Fiabe di Perrault), crea un altro capolavoro.

     Nel 1877 la Legge Coppino, ricalcando la precedente Legge Casati, ribadisce l’obbligatorietà dell’istruzione elementare, con l’aggravante di maggiori sanzioni per i genitori non ottemperanti. Il Governo ha le sue ragioni. E’ infatti a tutti chiara l’importanza dell’istruzione anche per i ceti medio-bassi, affinchè l’Italia sia ormai unita in tutti sensi. Ma il Collodi, che pure definisce l’istruzione “una gemma d’infinito valore”, non ci sta: e ha anche lui le sue ragioni: perchè quei ceti sono in forte indigenza: “l’uomo – scrive – prima di ogni altra cosa bisogna che mangi e beva, che sia difeso dalle intemperie e che abbia un giaciglio dove riposarsi, dopo le fatiche giornaliere pazientemente durate. Allora, soltanto allora, può trovarsi in tale stato d’animo da dare ascolto alla propria coscienza e da sentire l’ambizione di migliorare sè stesso”. Questo ed altri interventi successivi fecero sì che Collodi “non dovette passarsela completamente liscia, perchè intorno a quegli anni dovette avere almeno un severo ammonimento a non scrivere più di politica” (Marchetti). Ma, come c’era da aspettarsi, l’interessato si guarderà bene dal rispettare quel divieto.

     Il 1881, oltre ad essere l’anno del suo congedo definitivo dalla “greppia dello Stato” (parole sue), è pure l’anno in cui Ferdinando Martini fonda “Il Giornale per i Bambini”. Ma è soprattutto l’anno di nascita di Pinocchio. Guido Biagi, Redattore Capo del Giornale, invita l’Amico Carlo – che accetta dopo una notevole ritrosia – a dare anche lui il suo contributo. Così una mattina al Biagi giunge, nella sua redazione romana del giornale, un plico con dentro alcuni fogli dal titolo: La Storia di un Burattino, e un biglietto di presentazione: “ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene, per farmi venir voglia di seguitarla”. Quei fogli contengono i primi capitoli di quella “bambinata meravigliosa” (la definizione è di Alberto Asor Rosa) che tutti conosciamo, la prima puntata da pubblicare sul Giornale. L’ultima, che è anche l’ultimo capitolo, vedrà la luce il 25 gennaio del 1883. Lo stesso anno la casa Paggi pubblica la Fiaba-Racconto in volume col nuovo titolo: Le Avventure di Pinocchio (sottotitolo: Storia di un Burattino) e con le storiche illustrazioni di Enrico Mazzanti. Sempre nell’83 Carlo diventa direttore del “Giornale per i Bambini”.

     Nel 1886 muore Mamma Angiolina, lasciando Carlo “solo, desolatamente solo”, riferisce il nipote Paolo Lorenzini (Collodi Nipote). Epperò: se, materialmente parlando, il Collodi solo non fu, di certo lo fu moralmente e psicologicamente, e come dice lo psichiatra Ronald Laing: “essere solo non è lo stesso che essere solitario”.

     Quattro anni dopo la morte della madre, precisamente la notte del 26-X-1890, lo Scrittore muore a sua volta per un aneurisma al cervello, mentre sta per rincasare.

     Eccoci alla cosiddetta vocazione pedagogica del Collodi. Secondo Renato Bertacchini, Collodi “si è rivolto ai problemi educativi non per studi e propositi specifici, ma condottovi indirettamente e mediatamente dalla vita”, e perchè era “polemicamente mosso da un atteggiamento di scetticismo, da un’ennesima forma di sfiducia nei riguardi della scuola, dei programmi e dei maestri”. Epperò, della scuola come rigida emanazione amministrativa dello Stato e degli organismi scolastici del tempo: centralizzata e iperburocratizzata; “non della scuola qua talis, come luogo primario di educazione, come naturale veicolo di un autentico processo educativo, soprattutto necessario e civilmente raccomandabile, se inquadrato e armonizzato con le altre esigenze di riforma, urgentemente richieste in altri settori della società italiana”.

     Se Collodi è “il Babbo di Pinocchio”, è però anche lo stesso Pinocchio. Come scrive Pietro Pancrazi, egli “fu di quegli uomini che, anche adulti, anche vecchi, mantengono in sè una fortissima dose di ragazzo, proprio di ragazzo che vede il mondo a quel modo, e fa quelle burle e quelle scappate, e compie tanti atti naturalmente necessari a lui, ma che i grandi chiamano ragazzate. Tanto costante fu nel Collodi questa ragazzesca natura”. E per Franco Cambi: “in questo percorso dalla storia alla fiaba, al simbolo, nasce il puer aeternus Pinocchio, grumo palpitante dei bisogni-tentazioni e delle tensioni dell’infanzia ed, ergo, dell’uomo”. Ma per Collodi forse non è proprio così: lo status dello Scrittore fiorentino è – io credo – quello magistralmente descritto dal Pancrazi, ovvero: Collodi rimase sempre bambino pur diventando fisicamente e culturalmente adulto. La compulsiva possessività materna gl’impedì di crescere psicologicamente. E un “bambino” non ha l’età psicologica per innamorarsi e amare alla maniera degli adulti.  

     Per Luigi Volpicelli, “in Pinocchio, se c’è un messaggio educativo, è il ruolo che l’Autore assegna alla bontà”. Pinocchio non compie il male intenzionalmente: si comporta come tutti gli altri ragazzi: buono, sì, ma un po’ scapestrato, spesso litigioso, “senza un fil di giudizio e senza cuore” (Cap. XVII); per questo la Fata lo rassicura: “dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa” (Cap. XXV).

     A conti fatti, Collodi concepisce l’educazione al modo di Rousseau, come autoeducazione: stando a una dichiarazione del Nipote, “che l’uomo dovesse farsi da sè, fu sempre profonda convinzione del Collodi”.

   Andrea Canevaro scrive: “perchè – si domandava Pinocchio – perchè andare per le strade è una brutta cosa, mentre andare a scuola è bene? A me sembra il contrario, pensava; mi sembra che per le strade ci siano tante cose da vedere, mentre a scuola c’è poco spazio e bisogna per forza stare fermi, non fare rumore”. Pinocchio odia la scuola. Ma “se non ci va, perderà l’amore di papà Geppetto”, e questo egli lo sa.  Un giorno Pinocchio a scuola ha provato ad andarci: e lì, dice sempre Canevaro, “ha portato il suo corpo di marionetta con dentro da liberare parole e desidèri”. Perchè lui è un burattino, ma un burattino umanizzato, capace di provare sentimenti, di ragionare, di intendere e di volere (o non volere). Geppetto, lui è un illetterato, anche se conosce l’arte di lavorare il legno, e tuttavia ritiene che la scuola farà del su’ figliolo una persona istruita e quindi “una persona importante, [che] potrà ottenere un buon posto”.

     Per strada Pinocchio s’imbatte nella Volpe e nel Gatto: “e con loro impara a consumare, a comprare, a credere che l’unico modo per poter essere felici sia comprare e consumare” (Asor Rosa).

     Un giorno si ritrova nel Paese dei Balocchi. Dice Canevaro: il fatto “è che lo stesso architetto o lo stesso gruppo di architetti costruisce la scuola e il Paese dei Balocchi”; perchè (vuol dire Canevaro), per il Dio-Profitto è del tutto indifferente costruire attrezzature che migliorino la qualità della vita o strumenti di distruzione. E’ quasi ovvio che Pinocchio scelga la strada. Ma la strada è solo “un raccordo” che collega scuola e Paese dei Balocchi. Bisogna fare in modo che la scuola sia anche Paese dei Balocchi e il Paese dei Balocchi sia anche scuola. Ma per come stanno le cose, “Pinocchio ha ragione a non amare la vita chiusa fra quattro muri, immobilizzata in un banco, falsa”. E’ lo stesso Collodi che è nemico (diciamo così) dello Stato-Polizia (l’Italia è ancora sotto il giogo austro-ungarico), ecco perchè dice bene Stefano Benni: “il primo nemico di Pinocchio non è un orco (come nelle fiabe, magari quelle di Perrault, annoto io), ma un carabiniere”.

     Pinocchio a un certo punto finisce. Ma continuerà ad essere letto finchè ci sarà un essere umano sulla Terra. Come il Diario di Anne Frank, la Divina Commedia, il Manifesto di Marx ed Engels, i Vangeli della Cristianità (non contano le ideologie, le filosofie, le utopie implicite in ogni opera che elenco), la darwiniana Origine delle specie, e altro ancora. Opere così, nota Giorgio Manganelli, sono delle serie infinite di porte che si aprono e si richiudono di continuo, mai in modo definitivo.  Monumenti letterari, scientifici, filosofici che superano i confini geografici e sfidano la dimensione del tempo.   

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