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Giuseppe Berto…

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L’introduzione del libro “Giuseppe Berto a 40 anni dalla morte”, curato da Antonio Pugliese e Paola Radici Colace, da me pubblicato recentemente col marchio Mario Vallone Editore.

Antonio Pugliese

Introduzione

Riesumare dalle carte del passato la figura di Giuseppe Berto non è stata una cosa facile e nello stesso tempo non può essere operazione esaustiva, in quanto la personalità poliedrica dell’Autore e l’analisi dei contributi che ci ha lasciato meritano decisamente una lunga meditazione che, unitamente allo studio e alla ricerca, possano raggiungere degli obiettivi meritevoli.

            Per ripercorrere le tappe della sua vita, caratterizzata da uno spirito irrequieto che, dopo lungo peregrinare, trova quale rifugio della propria esistenza il suggestivo promontorio di Capo Vaticano, da dove scorgere «quel mare da dove nascono i miti», ho voluto mettere allo stesso tavolo studiosi di diversa estrazione culturale con il compito, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, di tratteggiare alcuni aspetti di questa anima complessa, che non ha avuto requie, se non dopo la morte.

Nell’affrontare uno dei principali scrittori del Novecento italiano, così come è stato definito da Ernest Hemingway e di recente da Cesare De Michelis, insigne studioso dell’importante produzione letteraria di Berto, teniamo presente che la sua collocazione nel panorama letterario, soprattutto italiano, ha diviso le opinioni dei critici spesso in contrasto tra di loro, per l’interpretazione dei suoi scritti e della sua complessa personalità.

L’odierno Convegno, che ha trovato come luogo della celebrazione la casa della cultura dell’Università di Messina, cioè l’Accademia Peloritana dei Pericolanti, presenta una singolare e felice peculiarità, in quanto l’evento è patrocinato da due Classi dell’Accademia, la Classe di Lettere, Filosofia e Belle Arti e la Classe di Scienze Medico-Biologiche, sotto l’emblema di un interesse multidisciplinare con il quale ci si vuole approcciare all’opera di Berto, in una combinazione tra scienza e letteratura.

            Sotto il profilo scientifico, dopo la riscrittura del suo profilo editoriale in particolare, abbiamo ritenuto interessante focalizzare l’indagine su alcuni punti: il primo, la descrizione di quel male invisibile di cui Berto è stato vittima per alcuni anni, consegnato al capolavoro Il male oscuro, che gli ha consentito di meritare due riconoscimenti speciali appena uscito nel 1964, e il secondo, l’interazione uomo animale, nella cui interpretazione è stato uno degli antesignani.

Ma se questi possono essere considerati gli elementi propulsivi  nell’organizzare l’evento consegnato alla memoria in questi Atti, così prestigioso e  primo nel commemorare la data della morte di Berto, non posso trascurare di  indicare una forte base emotiva che mi ha spinto a mettere in cantiere questo momento celebrativo, costituita dai ricordi personali, indelebili che mi legano al Maestro, quando  giovincello venivo attratto dal suo carisma  e dalle splendide iniziative che realizzava su quella rocca di Capo Vaticano.

Io partecipavo con immenso piacere e impudentemente mi inserivo in quel contesto di elevata cultura, alla presenza di uomini illuminati che facevano da corollario alle sue iniziative e alle sue riflessioni, che si traducevano in libri stampati, articoli su testate nazionali, relazioni a congressi e rappresentazioni teatrali o cinematografiche di particolare pregio.

Berto viveva, per scelta, in una solitudine straziante ma costruttiva a Capo Vaticano, dove realizzò la sua dimora, seguendo una progettazione prettamente mediterranea, in quei grigi pomeriggi del tardo autunno e intramontabile inverno.

Qui Berto ha realizzato uno scrittoio artigianale, o meglio un semplice tavolino, che nelle belle giornate dalla stanza trasferiva nello spazio antistante, un terreno allora ancora non curato, ma prospiciente il mare: in questo ambiente ha scritto la magna pars della sua opera letteraria che si conclude con La Gloria, ultimo baluardo di una lunga riflessione e rivisitazione della figura di Giuda, capro espiatorio di un progetto divino.

Questo rapporto empatico mi dà quella nota di orgoglio che mi ha spinto alla determinazione di portare questo grande scrittore oltre lo Stretto, all’interno proprio dell’Accademia Peloritana che per vocazione si occupa della cultura tra le due sponde, come proclama il suo motto («inter utramque viam periclitantes»), dove le opere dell’Autore potranno trovare giusta allocazione per essere fruibili da tutti coloro che hanno interesse a studiarlo, a cominciare da questo Convegno, foriero di contributi sotto profili ancora non evidenziati.

            I miei ricordi si intensificano annualmente con le visite a casa Berto, dove è possibile,  attraverso quei vialetti  sterrati e bordati di fiori in ogni stagione, tra gli alberi ormai dalla chioma  svettante al punto da intralciare lo sguardo verso gli inimitabili tramonti, entrare nella casa  che sembra rimasta uguale con il salottino di vimini, le panche rurali, le tavole grezze messe insieme per supportare il desco, unitamente ai libri in salotto e alle foto ricordo alle pareti, il mega barbecue, in un’atmosfera che fa rivivere un tempo  passato, ma non ancora consegnato all’oblio.

Cosi mi pregio di rinnovare il legame con i suoi congiunti, Manuela e Antonia, rispettivamente moglie e figlia, intrattenendoci in conversazioni quasi rituali: come se il tempo si fosse fermato, riprendiamo sempre dallo stesso punto, quando ancora eravamo allietati dalla presenza di Beppe e sorretti da un una frugale colazione con pane di casa, ‘Nduja e Pinot grigio.

Sul quel promontorio Berto ha consumato, come un uccello stanziale, buona parte della sua esistenza, salvo brevi interruzioni per un viaggio, un convegno o per ritirare un premio ambito, impegnando le sue giornate nel lavoro letterario che rappresentava la sua fonte di sostentamento o per partecipare, in modo attivo e fattivo, alla costruzione della sua casa.

In modo particolare, Berto ha rivolto un grande pensiero di affetto alla terra, che era diventata la sua patria, e alla gente del luogo, sempre più animato dal pensiero di effettuare un’analisi attenta e appropriata delle bellezze naturali e di ricercare le cause che non ne avevano consentito un adeguato sviluppo.

Innamorato e attento studioso della civiltà contadina, nella quale intravvedeva dei valori inestimabili, in modo particolare per i principi e i valori che riusciva a trasmettere, Berto realizzò nel 1974 un grande evento per il recupero di questa cultura che il tempo preparava all’oblio: un singolare progetto che ha consentito all’Autore di monitorare, attraverso delle ricerche affannose, i cimeli di quella antica civiltà, girando per le campagne e rilevando quanto di prezioso potesse ancora resistere all’incuria del tempo.

Un impegno tanto singolare quanto di elevato spessore culturale, che ha consentito di lasciare traccia di quel mondo che, all’insegna della semplicità e della scarsa disponibilità economica, era riuscito a rendere più agevole la vita e favorire la cultura dei campi e l’allevamento degli animali.

Con il suo abbigliamento semplice e dimesso attraversava con fare convincente tutte le contrade intorno, senza trascurare zone non certo limitrofe, che raggiungeva con la sua Renault 4, per intrattenere con i contadini un dialogo di interazione nel quale, nonostante l’accento diverso, Berto sembrava uno di loro e pertanto ispirava fiducia nel suo operato, spingendoli a dare un contributo alla sua ricerca.

            Questo era Berto nei ricordi della mia tarda adolescenza.

Questa era la casa Berto di allora, così rimasta a quaranta anni dalla morte dello scrittore, grazie all’impegno dei familiari che hanno saputo gelosamente custodire questo immenso patrimonio culturale, di cui la stessa casa è diventata l’espressione principe. Tutto come prima: il tempo pare non sia passato o per lo meno non sono state apportate delle rilevanti modifiche anche nella vita sociale che l’ha sempre contraddistinta.

            La casa del Maestro era un cenacolo di cultura dove era possibile incontrare persone che, nella semplicità più estrema, progettavano e successivamente realizzavano eventi di grande spessore.

In modo particolare faccio riferimento al grande impulso che lo stesso Berto ha dato alla cinematografia quando, a Capo Vaticano, con il regista Enrico Maria Salerno, ha progettato la realizzazione del film Anonimo Veneziano.

Salerno, come altri registi e uomini di spettacolo, era spesso presente in casa Berto per un soggiorno estivo o per un evento culturale. Lo stesso Salerno prese a frequentare la casa con maggiore intensità, da quando Beppe aveva costruito nelle adiacenze una casa per l’estate.

Il film Anonimo Veneziano, di cui  Berto ha curato la sceneggiatura e i dialoghi, utilizzati anche per una rappresentazione teatrale, è stato tratto dall’omonimo romanzo, in cui l’autore affrontava per la prima volta una tematica avvincente, la morte per tumore, in un periodo in cui di questo argomento, nascosto da un silenzio tabuistico, poco si parlava senza immaginare  che sarebbe diventato il flagello del secolo, sullo sfondo di una crisi della società che, attratta e dominata da falsi miraggi, metteva in discussione i grandi valori della famiglia.

Un soggetto non particolarmente esteso, sviluppato nello spazio di una sola giornata, che ha esitato un libro di poche decine di pagine, ma per la cui elaborazione stilistica Berto ha impiegato tante cure e un tempo considerevole, che impressionò lui stesso.

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