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“Figli di terracotta” – Katia Debora Melis

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Vincenzo Moretti recensione a Katia Debora Melis

Lo “scandalo del poetare” in “Figli di terracotta”di Katia Debora Melis, editrice Thoth, San Nicolò di Ricadi (VV), 2016, pp. 97, € 10.

La prima poesia della silloge,“Genesi”, funge da implicita introduzione alle successive cinque sezioni: “Quando il Sole / ha ingravidato la Terra / è diventato padre di tutti i padri / e la Terra, forte, / si è lasciata plasmare. / Nacquero figli di terracotta. / Siamo noi”. La Terra “forte”, al contempo attiva e passiva, perché “si è lasciata plasmare”: espressione di maggior pregnanza rispetto a una più prevedibile forma passiva, perché implica una scelta, un atto di volontà nell’accettare di essere fecondata, plasmata dal Sole, anch’esso indicato con la maiuscola nobilitante. L’autrice ripresenta l’archetipo della Genesi in modo originale: dalla rinarrata unione cosmica non si generano né Titani prometeici, né creature edeniche cadute in seguito a peccato originale, ma un’umanità, un essere terragno indurito dal sacro calore solare ma comunque “di terracotta”, fragile sempre come il neonato o il vaso infranto della bella copertina.

Fragile terracotta è la poesia d’oggi, inutile e negletta nel mondo attuale, dove (come dichiarato in “Spudoratezza”) imperano agio (“tutto si può fare”, comodamente e senza riprovazione morale) e disaffezione (per cui “niente più stupisce”)?

No: la poesia è “spudorata di sincerità”, e proprio per questo scandalosa, tanto che “dice / ciò che vuole / e lo dice / come vuole”. Che dice di sinceramente “spudorato e scandaloso” Katia Debora Melis in “Figli di terracotta”? E ancora: come sa dirlo? Tentiamo qualche risposta.

Katia Debora Melis

In “Contemporanea”, la prima sezione del libro, c’è un breve testo: “Sotto una coltre / pesante, densa e fitta / il seme dei nostri giorni / latita). Spazio (la “coltre”) e tempo (i “giorni”) si fondono, per forza di analogia, in una quarta dimensione straniante. All’immagine topica del seme che dorme sotto la coltre della neve, pronto a passare da chiccolino a messe rigogliosa, si aggiunge (e si contrappone) un ben diverso significato. Il seme è, per metafora genitiva, quello “dei giorni”, che non dorme, ma “latita”, non si fa trovare, “come se l’uomo stesso fosse in fuga da sé, disorientato e fuggiasco, […] qualcosa di non visto, di nascosto, di celato, che sappiamo esserci stato e che, per qualche ragione, è invisibile ai nostri occhi”, come scrive Lorenzo Spurio nella sua Introduzione. La poesia è parola scandalosa perché varca oltranzisticamente i limiti stabiliti dal codice linguistico della tribù, fondato sul già detto e sul già noto, sollecitando il lettore “a com-prendere e accogliere in sé e su di sé lo sguardo stupito e obliquo che il poeta scaraventa sulla realtà percettibile”, come ben si esprime nella sua acuta recensione Ilaria Biondi (www.poesiaeletteratura.it 15/11/2016).

“Dire quel che vuole”: in questo, appunto, consiste la comunicazione “scandalosa” del poeta. Con, in più, la licenza (poetica!) di dirlo “come vuole”. Così è per i testi qui presentati da Katia Debora Melis: che nulla hanno di scandaloso e spudorato, né nei contenuti, estremamente pudichi e sorvegliati, allusi piuttosto che dettagliati, né nello stile, caratterizzato da scatti analogici efficaci e originali ma mai ostentati, quasi ammantati da una gnomica lucida e sussurrata, né nella selezione linguistica, contraddistinta da un lessico che presenta i nomi concreti delle cose, “un linguaggio quanto mai diretto e quasi materico” (Lorenzo Spurio), che però paiono subito sfumate e dissolte dall’accostamento con termini astratti.

Si legga, dalla seconda sezione (“De malo et bono”), la lirica “Avanguardia”: “Tu, poeta, / sei soldato, / senza pace, / senza nome. / Porti scritta la parola. / Tu la spegni, tu l’accendi / fino a farne vibrare la pelle. / Tu, avanguardia / di tante piccole guerre”. Quanto finora detto a riguardo della poesia di Katia Debora Melis, di una scandalosaspudoratezza tutta particolare, consistente nel discorso di tipo razionale, aforistico, che sceglie figure retoriche efficaci, ma non scoppiettanti, può essere qui confermato. Il poeta è soldato in prima linea: non moderno Tirteo che infiamma i combattenti con canti guerreschi, non suonatore del piffero della rivoluzione, non l’eversore di lessico e sintassi, ma il combattente “di tante piccole guerre” necessarie per dare un senso più puro al linguaggio della tribù ormai omologato dal pensiero unico che cancella ogni molteplicità, ogni differenza e ogni varietà di visioni e di atteggiamenti.

“Medicamina”: il titolo di questa sezione rinvia ai “Medicamina faciei femineae”, il poemetto di Ovidio sull’uso dei cosmetici, didascalicamente indirizzato all’ambiente salottiero delle matrone romane. Qui invece i “medicamina” consistono nel parlare di piccoli alberi che cercano e si godono il sole, “mentre noi cerchiamo i baci e le carezze”. Un verso lungo, quest’ultimo citato, un dodecasillabo non cesurato, uno dei rari versi lunghi presenti in tutto il libro, dove prevale il verso breve o brevissimo che dice la frantumazione, la desolazione, la scabra ed essenziale lamentazione nei confronti di mondo disincantato, laddove il verso lungo o lunghissimo (di solito, ma non sempre, e talvolta per via di negazione) ne prospetta l’opposto e il contrario. Sono questi i “medicamina” consentiti ai chi sa di appartenere alla progenie dei “figli di terracotta”: il “tempo semplice / di attimi / intenso”,  “il “piccolo germoglio / di sereno” che possa “sbocciare finalmente / al sole”. Sono i rimedi che al “piccolo albero” consentono “la vita illuminata” dall’Io lirico attribuito alla vegetale creatura.

“De amore”, titolo della quarta sezione, rinvia al poderoso trattato in latino medioevale di Andrea Cappellano, che codifica in modo minuzioso ed esaustivo l’amor cortese cantato nelle liriche occitaniche e nei poemi del ciclo arturiano: cuor gentile, amore extraconiugale, rapporto vassallatico dell’amante nei confronti dell’amata…

Il discorso d’amore in Katia Debora Melis è invece assimilabile alla moderna poesia dell’assenza. Un’assenza che è nostalgia di “un’altra fioritura” (di nuovo la simbologia del vegetale!), di uno “sguardo / sorpreso / che si volta”, di “un giorno passato / che non è più scaldato dal sole / che non brilla al pensiero dell’amore”, del “sogno / limpido[…]che gli occhi una volta hanno visto”. Ma ecco, in “Cade dal cuore”, con scandaloso rovesciamento dei valori, il vuoto dell’assenza diventa la vitale pienezza del ricordo che si fa desiderio: “risposta dell’assenza / che brilla forte / accesa / più bella di ogni presenza”. Di solito, il tempo verbale che dice l’assenza e la nostalgia è il tempo presente. Nella poesia “Nudi”, invece, l’indicativo presente segnala il persistere di “quel tuo sguardo assetato / che mi ha ammazzato la noia”, perché “finalmente abbiamo capito, / la nudità è il solo vestito / che davvero ci appartiene.”

La nudità di fronte all’Altro, quella “di notti sussurrate e nude”, degli “occhi curiosi / anche di tenerezza”. “La nudità è il solo vestito”: due parole di significato contrario si fondono in un’unica espressione semanticamente pregnante. È un ossimoro, l’unico rilevabile nel libro: a riprova del fatto che la Melis usa le figure retoriche in modo discreto e parsimonioso, a parte la costante presenza dell’analogia. Così come discreta, pudica, spesso assente, è la musicalità del verso e del giro sintattico. L’allitterazione e la rima possono considerarsi i corrispondenti fonici di quei “piccoli, ma fondamentali, preziosissimi lampi”, di quella “bianchezza luminosa. incerta, forse, esitante” di cui parla Ilaria Biondi a proposito delle tematiche positive presenti in “Figli di terracotta”. In questa penultima sezione intitolata all’amore, la musicalità si fa leggermente più insistita. Ci sono rime (“scagliare: mare”; “assenza: presenza”; “vestito: capito”); rime al mezzo(“che canta il nulla / e ti culla con lo sguardo”; “sguardo assetato / che mi ha ammazzato la noia”); allitterazioni vocaliche (“senza freni / eri”;“sassi / levigate da…abbracci”) e consonantiche (“come sassi / da scagliare”; “resta la risposta”) e ripetizioni di parola (“…occhi curiosi /…/occhi smarriti / a volte, a volte puri”; e anche, nella successiva sezione: “ardo e ardo”; “lontana da una terra lontana”).

“Somniorum fragmenta” è l’ultima, e più consistente, sezione del libro. Frammenti di sogni che si presentano al giudizio della ragione. Il mondo del sogno coincide con i dati della memoria, sempre valutati da una ragione tanto libera (di lasciar dire, con scandalosa spudoratezza “ciò che vuole /…/ come vuole” – in “Spudorata”), quantosevera e sincera nel considerare e nel valutare sogni e progetti, attese e ambizioni. “Pensieri” è parola-tema che ritorna frequentemente nelle ultime ventitré poesie del libro, così come “ricordo”, “memoria”,“sogni”. Si tratta di un campo semantico che costituisce il nucleo della poetica di Katia Debora Melis, quello “scandalo del poetare”(non a caso, metà delle liriche di questa sezione ha per tema – più o meno esplicitato – la poesia e il poeta) in maniera tanto breve quanto pregnante. Con una libertà di argomenti e con una personalissima cifra stilistica che, come Katia Debora Melis dichiarò nella già citata intervista, sono essenziali “per esprimere un mondo che non è solo mio e interiore ma che, talvolta, assume caratteri di così forte ed evidente universalità da non richiedere ulteriori delucidazioni e ampliamenti. Poche parole, spesso, hanno il potere di suscitare maggiori emozioni perché chi le legge o le ascolta ha più ampi spazi per la propria attività di riflessione e di comprensione”.

Vincenzo Moretti

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