Seminari Mnemosyne: ultima sessione

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Nell’ambito dell’evento Cerealia Ludi, la manifestazione organizzata dall’Archeoclub di Vibo Valentia in collaborazione con associazioni e istituzioni, si terrà l’ultimo appuntamento della sessione primaverile de “I Percorsi della Memoria”, la serie di eventi organizzati dall’Associazione  Culturale Mnemosyne, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario Vibonese. Venerdì 10 Giugno, alle ore 16:30, presso il Complesso Monumentale Santa Chiara di Vibo Valentia, la Dott.ssa Maria Rosaria Luberto, Professoressa dell’Università degli studi di Firenze, terrà un seminario su “Vita di delizie. Cultura del cibo in Magna Grecia e Sicilia”. In seguito il Dott. Giuseppe Collia discorrerà su “Il simposio nel mondo greco-romano”. Seguiranno gli interventi del Dott. Fabrizio Sudano, Ispettore della Sopraintendenza della Calabria, e della Dott.ssa Adele Bonofiglio, Direttrice del Museo Archeologico Statale Vito Capialbi di Vibo Valentia.

Modererà l’evento la Dott.ssa Annagioia Gaglianò.

I giovani soci dell’Associazione Mnemosyne, sono impegnati in svariate iniziative al fine di riscoprire e valorizzare i beni tangibili e intangibili del territorio vibonese e calabrese tramite la diffusione scientifica di temi legati ad archeologia, storia e architettura.

Gli incontri de “I percorsi della memoria” sono tenuti da giovani studiosi calabresi che lavorano attivamente nell’ambito della ricerca archeologica, sia a livello pratico sia a livello teorico, realizzando rilevanti progetti di portata non solo nazionale ma anche internazionale.

 

Abstract

Vita di delizie: cultura del cibo in Magna Grecia e Sicilia

« Scrive Elisa Pinzino nel suo libro 2014: Odissea nel piatto: “Come separare la storia con la S maiuscola dalla storia della cucina? Noi uomini e donne creiamo relazioni con il mondo attraverso i cinque sensi e attraverso il senso del gusto ci relazioniamo con il cibo, esattamente come il nostro amico peloso a quattro zampe, proprio come lui mangiamo per sopravvivere. Ma solamente noi uomini trasformiamo il nutrimento in qualcosa non solo di buono, ma anche di bello: noi pensiamo il cibo, lo rendiamo forma e gli attribuiamo un valore aggiunto al di là del nutrimento immediato che ne può scaturire: la convivialità”. L’approvvigionamento di cibo e bevande è una delle necessità basilari dell’essere umano e il semplice fatto che un individuo consumi degli alimenti non riveste un interesse particolare per la storia, l’archeologia o la letteratura. Al contrario, le tecniche di trasformazione degli ingredienti di base, le pratiche di consumo e lo stile delle diverse cucine sono di enorme interesse perché la preparazione dei cibi e il modo di servirli e di consumarli possono variare all’infinito e soprattutto sono intimamente collegati alla struttura identitaria di individui e di gruppi umani. Sulla base di questa impostazione metodologica in questa presentazione si proporranno alcuni esempi di storia alimentare relativi all’Italia meridionale e, in maniera più ridotta, alla Sicilia, distribuiti lungo un arco cronologico che va dall’età del Bronzo al periodo ellenistico. L’obiettivo è provare a ricostruire un quadro, puramente esemplificativo data l’ampiezza dell’argomento, di alcuni dei principali usi e costumi alimentari attestati nelle regioni del Sud, nonché delle relative implicazioni culturali, sociali e in parte anche politiche. Dopo un breve erxcursus terminologico, ci si soffermerà sulla struttura del banchetto e del simposio, sulle loro caratteristiche e sui riferimenti letterari rintracciabili già nell’Iliade e nell’Odissea che codificano le cerimonie del consumo del cibo e del vino in comune secondo canoni che rimarranno stabili nel tempo. Ma in Italia meridionale, già prima dell’arrivo dei greci, tra XIV e XIII sec. a.C., il consumo dei pasti in comune assume valore di strumento di aggregazione politica e di pratica di condivisione e solidarietà: questo accade secondo le fonti tra gli Enotri grazie all’intervento riformatore di Italos, che trasforma le popolazioni da nomadi in sedentarie e istituisce i sissizi. Le ricerche archeologiche condotte in Sibaritide da R. Peroni permettono di circostanziare il racconto delle fonti: Broglio di Trebisacce, la “casa centrale” (XIII sec.) e i servizi per il consumo del vino; il magazzino dei pithoi (XII-X sec. a.C.) e l’edificio rettangolare; la fossa con resti di cervi (pasto comunitario). È possibile rintracciare ulteriori elementi di storia alimentare anche in relazione agli inizi della colonizzazione greca d’Occidente: le coppe di Thapsos e la proposta interpretativa di P. Pelagatti come unità di misura per la razione quotidiana di vitto dei coloni in viaggio. Il cibo dei coloni: la maza. VII e VI sec. a.C.: Sibari, l’eccesso; Pitagora, Crotone e il ‘vegetarianesimo’ Ateneo: La prosperità di Sibari sembra trarre motivo da ciò, che la regione prossima al mare è priva di porti e i prodotti della terra vengono consumati pressoché tutti dai cittadini: la posizione della città e l’oracolo ricevuto dal dio spingevano pertanto tutti ad estenuarsi nei piaceri, facendoli vivere in una smodata dissolutezza.” La maggior parte di essi (scil. i Sibariti) possiedono cantine (oinones), ubicate vicino al mare, alle quali il vino arriva, attraverso delle condotte, direttamente dalle loro tenute agricole. Parte di esso viene venduto fuori dal paese, parte trasportato in città su imbarcazioni”. Ateneo, Deipnosofisti, VI, 273b: (Smindiride a Sicione per partecipare alla gara per la mano di Agariste, secondo il racconto di Erodoto) Smindiride era così votato al lusso e allo sfarzo che si presentò a Sicione con un seguito di 1000 schiavi (in Eliano diventano 3000!) che erano macellai e cuochi specializzati nella preparazione della carne, del pesce e dei volatili. Gli schiavi di Smindiride coprivano ogni tipo di fabbisogno culinario: tra di loro c’erano i mageiroi, coloro che uccidono e macellano gli animali, confezionando piatti a base di carne. (Ascia da S. Sosti, scure-martello utilizzata per infliggere all’animale destinato al sacrificio il colpo mortale; l’iscrizione parla di un artamos, vocabolo che indica il macellaio, nel tempo passato a indicare anche il cuoco. Probabilmente in questo caso il riferimento è alla figura di un macellaio sacro, per così dire, cioè un vittimario, uno degli addetti al sacrificio e quindi al culto della divinità). Ancora Ateneo conferma questa opulenza sibarita e la loro fama di grandi mangiatori, di grandi gourmet, crapuloni e viziosi: XII libro, lungo elenco di tutte le stravaganze dei Sibariti con ampi riferimenti ai loro voluttuosi costumi alimentari. A Sibari, la città dell’eccesso sotto tutti i profili, nel racconto delle fonti punita dagli dei proprio per la sua hybris enfatizzata nei testi in primis attraverso la singolare caratterizzazione del rapporto con il cibo della popolazione, si oppone nel racconto storico, Crotone, la città il cui territorio era stato scelto dai coloni in origine, secondo l’oracolo delfico, non per la sua ricchezza, ma per la sua salubrità, tanto che era diventata per questa sua particolare condizione geoclimatica una ‘sfornatrice di olimpionici’. Pitagora, i Pitagorici e l’aspra condanna dei màgeiroi. Timeo: Pitagora ‘vegetariano’ e il divieto di consumare carne e tutto ciò che è frutto di sacrifici sanguinolenti. Diogene Laerzio: la proibizione della carne degli animali mirava ad abituare gli uomini a praticare una vita frugale per garantire salute al fisico e acutezza all’anima. Giamblico: il regime alimentare “è di grande aiuto in vista della migliore educazione, quando sia corretto e ordinato”. Contra, Aristosseno di Taranto: parla del consumo da parte del filosofo di giovani capre e maialini da latte, ma anche di buoi da lavoro e montoni. Anche Aristotele parla dei Pitagorici come carnivori, affermando che non consumano, tra le parti dell’animale, solo l’utero e il cuore. M. Detienne, I giardini d’Adone: due tradizioni che convivono e che devono essere ricondotte a due diverse categorie di pitagorici, quelli del Maestro di Samo per i quali l’alimentazione serve solo a placare i bisogni primari, sete e fame, e a null’altro, e quella del condottiero Milone la cui fama di carnivoro era conosciuta in tutta la Grecia. Milone, personaggio di spicco della Crotone dell’ultimo quarto del VI sec., pitagorico. Il pitagorismo di Milone contrasta violentemente con quello del maestro, a partire dalla fama che egli si fa nell’antichità proprio per il suo vorace appetito. Ateneo: egli ingurgitò in un solo giorno più di dieci chili di carne, uguale quantità di pane e bevve più di dieci litri di vino. A Olimpia, dove trionfa per sei volte, si caricò un toro sulle spalle e fece quattro volte il giro dello stadio, poi lo sacrificò e lo divorò fino all’ultimo boccone. Milone, novello Eracle nella battaglia contro Sibari, guida il contingente abbigliato come Eracle, con la leonte sulla testa e la clava in mano. Il suo comportamento alimentare, del tutto differente da quello del maestro, definisce l’altra versione, l’altra faccia del pitagorismo: la centralità nel gruppo politico orientato verso un’azione concreta di ristrutturazione del corpo civico. Milone è ‘il braccio armato’ del pitagorismo. Nella letteratura e nella storiografia antica il cibo nelle sue diverse varianti, le trasformazioni cui è sottoposto, le modalità con le quali viene consumato divengono simbolo e racconto di storia politica e sociale: Sibari, la città dell’eccesso anche e soprattutto alimentare, opposta a Crotone con Pitagora, mago estatico, contemplativo e parco, e Milone, cittadino attivo, uomo di guerra e solido divoratore di carne che rappresentano i due aspetti del pitagorismo. Nasce quindi con Sibari, e in opposizione a Crotone, dove si mangia pochissimo o tantissimo, ma con scopi non puramente edonistici, una tradizione gastronomica che diverrà una delle note peculiari delle opulente civiltà magnogreche e che avrà uno dei suoi centri principali, molto tempo dopo Sibari e la sua rovinosa caduta, nella nuova superpotenza dell’antichità, la corinzia Siracusa che Eliano definisce hieron adifagias, il santuario delle ghiottonerie o meglio, alla lettera, della voracità e in riferimento alla quale Platone (Leggi) racconta: “Con questa disposizione d’animo venni alla volta dell’Italia e della Sicilia, dove giungevo allora per la prima volta. Ma una volta giunto non mi piacque affatto quel modo di vivere che là chiamano felice, quei frequenti banchetti degli Italioti e dei Siracusani, e quel riempirsi di cibo due volte al giorno e non dormire mai soli la notte, e insomma tutte le abitudini connesse a questo tipo di vita.” Il protagonista delle tavole magnogreche in periodo tardo-classico e ellenistico inizia a essere il pesce: secondo Aristotele nel mare di Taranto se ne trovano 93 diverse specie, rinomate sono le anguille di Reggio e di Messina, lo storione di Siracusa e le murene dello stretto. Di queste e altre ghiottonerie e dei sofisticati modi per prepararle, arricchendole con salse di vari tipi, abbiamo notizia da una delle più antiche guide gastronomiche a noi note, la Hedypatheia, la Vita di Dolcezze di Archestrato di Gela, risalente al IV sec. a.C. e della quale rimangono solo frammenti. Fr. 34: uno dei pescati principali dell’Italia meridionale e della Sicilia era il tonno, ottimo a Bisanzio e a Karìstos (località dell’Eubea), ma di gran lunga migliore in Sicilia, a Kephalìdi (da collocare sulla costa nord della Sicilia, nei pressi di Himera) e a Tindari. Ma il capolavoro assoluto è il tonno di Hipponion, l’odierna Vibo Valentia. Peschiere di Briatico, S. Irene. Il tarichos. I piatti da pesce a figure rosse dall’Italia meridionale e le specie rappresentate sulle diverse produzioni: rane pescatrici, calamari e seppie, insieme a conchiglie e cavallucci marini su quelli apuli; molte varietà su quelli campani e sicelioti. Esemplare da Palermo rinvenuto coperto da una mucchieto di lische e ossicini che ne suggeriscono l’effettivo utilizzo prima della deposizione nella tomba. Tombe di c.da Vecchia presso Agropoli e tomba n. 13, c.da Licinella, Paestum con piatti da pesce. Tecniche di cottura del pesce; suggerimenti e critiche di Archestrato agli ‘Occidentali’ che ricoprono il pesce di formaggio, di aceto e di silfio ma “…per quello che riguarda i pesci di roccia, tre volte degni di essere maledetti!, sono i migliori nel cucinarli e sono capaci di realizzare per i banchetti piccoli piatti sgocciolanti d’olio, conditi in maniera raffinata”. Alcune delle ricette tramandate dalle fonti antiche per la cottura del pesce e esempi di ceramica da cucina dalle colonie magnogreche. I ‘realia’: la coroplastica votiva da contesti sacri e funerari. Dal santuario di Persefone alla Mannella di Locri Epizefiri: i pomi selvatici a confronto con le varietà contemporanee della cd. ‘mela di S. Giovanni’ e della annurca; le mele limoncelle, ancora rintracciabili nei territori di Reggio Calabria e di Salerno; i grappoli d’uva; le cucurbitacee raffrontabili al tortarello abruzzese; i latticini e le decorazioni risultanti dall’impiego delle fuscelle di vimini. Alcuni esempi dalla tomba di c.da Vecchia nel territorio di Agropoli: melagrane, mandorle, fichi, focacce e ‘ricotte salate’. La fattoria connessa al sepolcreto. Odissea, IX, 276-317: l’industria casearia nell’antro di Polifemo. »

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