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La presentazione del libro di Franco Pagnotta

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L’altro ieri, in una gremitissima sala consiliare, a Filandari è stato presentato il libro “Gli anni dei sogni brevi”, scritto dal giornalista Franco Pagnotta, pubbllicato dalla Thoth Edizioni di Capo Vaticano.

All’incontro, oltre all’autore, sono intervenuti: la giornalista Rosita Mercatante; il sindaco di Filandari Vincenzo Pizzuto; il prof. Imperio Assisi; il giornalista Tato Iannello; il giornalista ed editore Mario Vallone.

Di seguito la recensione di Rosita Mercatante:

IL racconto di un’epoca, quella che va dalla metà degli anni ’50 ai primi anni ’60. Un’epoca non troppo lontana temporalmente da quella odierna, eppure profondamente diversa.

Diversi erano i valori e i ritmi di vita. Era il tempo in cui erano “tanti i figli e poco tutto, e anche il tempo che non bastava mai, con i nostri padri che partivano all’alba e tornavano con il buio, e noi bambini che tra scuola bottega, campagna o strada correvamo sempre qua e là, a sudare di gioia e di scoperte infinite. Ci mancava sempre qualcosa ma non lo sapevamo, perché non conoscevamo il tanto”.

Il sentimento che accomunava tutti coloro che non appartenevano alla classe dei “signorotti” viene definito dall’autore come “la gioia del niente”. A rendere felici quella gente era “la libertà del cuore, dei pensieri brevi e dei progetti che duravano una sola giornata”.

Gli occhi erano puntati sull’oggi e mai sul domani, ma nel cuore c’era una vaga speranza: prima o poi tutto sarebbe cambiato e sarebbe finita anche la schiavitù della terra e quell’eterno partire e tornare.
È qui che si può individuare il punto cruciale dell’interno libro. In esso le minuziose descrizioni dei luoghi, delle tradizioni, dei personaggi diventano strumenti per veicolare un messaggio dalla forte carica di positività. A non abbandonare mai il cuore di quella “civiltà contadina” di un piccolo paese dell’entroterra vibonese, Filandari, è la fiducia del riscatto. È la stessa che riesce a dare la forza ai padri di famiglia di andare incontro ad un mondo sconosciuto avventurandosi su un treno che li strappava senza pietà dai loro affetti e dalle loro radici.
Pagnotta – interessato da sempre alla scrittura – narra i fatti di gente dalla grande dignità che non sa piegarsi al vittimismo. Di giovani uomini dalle spalle forti e allenate alla fatica di una vita troppo avara ma ricca di figli e di sogni, di anziani che si piegavano al ricordo della guerra del quindicidiciotto, di donne dalle vesti nere e pesanti stanche per la brocca d’acqua riempita alla fontana, e di bambini cresciuti ascoltando storie di fantasmi e di paure che uscivano dalla bocca dei nonni. Bambini cresciuti scorrazzando per i vicoli del paese, che facevano di corsa tra le rughe strette, ripide, silenziose durante il giorno e che si ripopolavano all’imbrunire quando c’era il ritorno dai campi. Sono proprio gli occhi di un bambino a diventare lo specchio di quei luoghi e di quei personaggi che vengono presentati al lettore attraverso il coinvolgimento sensoriale della vista, dell’udito, dell’olfatto, e addirittura del gusto. I ricordi dell’autore hanno colori, suoni, odori, sapori. E allora queste pagine emanano l’aroma del caffè con l’anice, gli odori stantii, ovattati e caldi del pagliaio che diventava il rifugio per i bambini nei pomeriggi d’estate, il profumo dell’olio appena uscito dalla macina di granito, che si mescolava a quello della terra. A quegli anni “veloci” il professore Pagnotta attribuisce anche dei colori. Giornate dallo sfondo bianco come la neve e nero come le sere d’estate. “Ogni cosa – si legge – aveva un colore, vivo o soffuso, deciso o accennato con sfumature che non ho più rivisto”.
L’attesa:
Il mondo descritto dall’autore ha anche una forma. È “un mondo fatto di cerchi, piccoli e grandi, mai perfetti perché era la vita ad essere imperfetta, nulla di scontato, un giorno mai uguale all’altro, e per questo bello da aspettare e da inventare”. L’attesa, difatti, era un altro pregio di quella gente. In quegli anni Si viveva bene il tempo. Tutti sapevano aspettare con pazienza. Grandi e piccini. Quella degli uomini per i loro raccolti era un’attesa quieta e operosa. Ci si sottometteva docili alle regole del tempo e della vita. Si attendeva di diventare grandi vivendo intensamente ogni stagione della vita.
Memoria e Nostalgia:
Quella che emerge da questo libro è l’istantanea di un’epoca e di un mondo che appartiene alla civiltà contadina, come è stata definita da Corrado Alvaro. Un racconto fatto in maniera realistica e mai enfatizzato, in cui la nostalgia che appartiene ai personaggi non è mai retorica. È un mondo in cui i sogni e le speranze dei contadini, degli emigrati, dei poveri incontrano il desiderio di giustizia. Quella dell’autore è una nostalgia autentica di cui vuole custodire memorie di un passato che gli appartiene. E’ la nostalgia di chi si mette in viaggio con la sua valigia verde, portandosi come bagaglio più prezioso il ricordo e gli insegnamenti del mondo lasciato.
L’emigrazione:
Partire era un po’ come morire. Eppure c’era la voglia di riscatto e di rivincita sull’avido padrone per il quale si lavorava per poi avere in cambio solo una minima parte del sudato raccolto. L’autore descrive con dovizia di particolari l’amara partenza degli emigrati, “un cerimoniale fatto di silenzi, di lacrime trattenute, di rumore di carta, di parole dette piano e di madri avvolte in scialli neri”. Era uno strazio, un addio. Non c’era nessuno che allora tornava dall’America. Emblematica è l’immagine delle donne che si strappavano i capelli e la faccia fino a farla sanguinare. Così come di fronte alla morte, la sofferta lotta era contro un destino invincibile. Un triste destino con cui hanno dovuto fare i conti tutti i calabresi.

Rosita Mercatante

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