L’insostenibile pesantezza dell’orgoglio calabrese

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Nicola Rombolà

L’insostenibile pesantezza dell’orgoglio calabrese

Siamo tutti vermi, ma io credo d’essere un verme splendente, una lucciola” (Wiston Churchill)

Io sono solo un vermo della terra” (Natuzza Evolo)

Si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere delle farfalle” (Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry)

Coloro che non hanno radici e sono cosmopoliti, si aviano alla morte della passine e dell’umano,: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale” (Ernesto De Martino, Appuntamento – Premessa ad Albino Pierro, 1967)

“Siamo orgogliosi che in queste ore il nome della Calabria sia legato a Luigi Camporota, il medico di origini catanzaresi che ha in cura il premier britannico Boris Johnson. Ne siamo fortemente orgogliosi perché è questa Calabria operosa, delle intelligenze e delle professioni, che finalmente deve poter venire a galla come esempio positivo di una regione che merita un futuro migliore. Un medico calabrese, figlio del nostro sistema universitario, un luminare della ventilazione polmonare che con la sua alta professionalità rappresenta un fiore nel deserto di questo Covid-19, dal quale la Calabria deve poter rinascere”(Jole Santelli, presidente della Regione Calabria, 10 aprile)

Siamo tutti vermi, ma io credo d’essere un verme splendente, una lucciola” (Wiston Churchill)

Io sono solo un vermo della terra” (Natuzza Evolo)

Si devono pur sopportare dei bruchi se si vogliono vedere delle farfalle” (Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry)

Coloro che non hanno radici e sono cosmopoliti, si aviano alla morte della passine e dell’umano,: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale” (Ernesto De Martino, Appuntamento – Premessa ad Albino Pierro, 1967)

Excusatio non petita accusatio manifesta. L’ostentazione dell’orgoglio calabro è un’accusa manifesta del complesso di inferiorità. La Governatrice della Regione Jole Santelli annuncia sui media urbi et orbi, i prodigi del medico, di origini calabrese, Luigi Camporota che si è preso cura del premier d’acciaio inglese Boris Johnson (degno erede della lady di ferro Margaret Thatcher). Il suddito di sua maestà Elisabetta II improvvisamente scopre di essere semplicemente di carne e ossa, dopo aver sbandierato l’immunità di gregge. Anche lui vittima sacrificale dell’orgoglio english.

Così, il coro delle “magnifiche sorti”che decanta la specie Sapiens Kalabris può guardarsi nello specchio della celebrità e vivere l’illusione di mondarsi di tutti i peccati. L’autoprofezia si autoavvera: autoconvinti di essere brutti sporchi e cattivi, si sbandiera l’eroe, il mito, il salvatore dell’orgoglio patriota perché ha in cura, pensate un po’, sir Boris Johnson, colui che ha compiuto per l’umanità opere misericordiose e miracoli. Ma a tutti quei medici, infermieri e personale sanitario calabresi, che in silenzio curano i poveri cristi, a loro niente fama. Solo con i potenti sono degni della gloria del Cielo. E qui in Calabria chi ci cura? Trascurati, oscurati, rassegnati, calpestati e predestinati alla dannatio memoriae?

Per riscattarsi ed essere considerato qualcuno è necessario emigrare, estirpare le proprie radici, vivere la condizione esistenziale della diaspora. Questo il vecchio e nuovo testamento predicato dalla Santelli e dai tanti epigoni in coro che cantano il Gloria al Padre (dossologia minore) e il Gloria a Dio (dossologia maggiore).  La propaganda è sempre pronta ad iniettare il suo potente anestetico.

La passione di Cristo e il Calvario i calabresi sono costretti a patirli ormai da decenni se non secoli, perché la Calabria è diventata una eterna emergenza, visti i protagonisti delle nostre istituzioni a cui i calabresi “illuminati” dallo Spirito Santo hanno affidato la loro sorte. Il complesso di inferiorità porta e ha portato molta gente calabra ad essere asservita, a omaggiare e a prostrarsi al potere (non ha importanza chi lo esercita e come, se sia con il timbro della legalità o senza). Il padrone è entrato nelle viscere di questa terra: nelle parole, nei pensieri, nelle coscienze, nel DNA, nell’inconscio, felici di essere trattati da servi e da utili idioti. Democrazia non rima con libertà, con verità, con responsabilità, con impegno, con riflessione e con civiltà.

Lo hanno testimoniato in particolare scrittori non calabresi ma che hanno osservato la Calabria e i calabresi con uno sguardo capace di penetrare fino in fondo alla loro pelle, come Giuseppe Berto e Pier Paolo Pasolini. Lo scrittore veneto, autore de “Il male oscuro” e di tanti altri romanzi importanti, nei suoi molteplici articoli e reportage dalla e sulla Calabria (avendo eletto Capo Vaticano come sua patria spirituale fino alla fine dei suoi giorni, a partire dagli anni ‘50), ha descritto con acutezza psicologica il fenomeno del complesso di inferiorità che marchia a lettere di fuoco i calabresi. Lo spiega in questi passaggi:

“Il guaio più grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo,vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite” (E’ inutile, 1973 e Rimpianto di una civiltà, 1974).

“V’è una forte componente psicologica nella rabbiosa rottura col passato: il passato è miseria, senso di inferiorità rispetto al Nord industrializzato, quindi bisogna rivoltarglisi contro, cancellarlo” (Rimpianto di una civiltà).

Infine, queste parole scritte nel 1964, Vacanze in Calabria, sono ancora più corrosive:

E’ inimmaginabile il complesso d’inferiorità che hanno i calabresi: cercano di camuffarsi in tutti i modi da settentrionali, ma lo fanno con totale imperizia, e in realtà non si capisce come mai, allora, non comincino a tagliarsi i baffi”.

Pasolini ha avuto un rapporto sofferto con la Calabria e i calabresi, dettato dal suo amore per i linguaggi periferici, per le tradizioni popolari, per i diseredati e soprattutto per il richiamo al millenario mondo della civiltà contadina. Non a caso (visto che ci ritroviamo in tempi di passione), nel suo capolavoro cinematografico, “Il vangelo secondo Matteo”, ha fatto recitare come attori persone del popolo tra cui calabresi e alcune scene del film sono state girate in Calabria. Con queste parole fa un ritratto spietato che vale più di tanti studi di carattere sociale, antropologico e psicologico:

“La Calabria è stata sempre periferica, e quindi oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata. Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o, per dir meglio, con linguaggio tecnico, complessata. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia pesa sulle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria. Nel popolo questi complessi psicologici di carattere storico, possono dare, nei casi estremi, i risultati più opposti: la più grande bontà  – una bontà quasi angelica – e una furia disperata e sanguinaria (la cronaca purtroppo ne parla ogni giorno). Una popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica. (Le belle bandiere, dialoghi 1960 – 1965).

Questo giudizio segue il suo lungo reportage “Le lunghe strade di sabbia” del 1959, pubblicato dalla rivista “Successo” diretta da Arturo Tofanelli, realizzato dopo aver attraversato a bordo di una fiat millecento la costa italiana fino al Sud. L’intervento sulla Calabria, con il suo stile eretico, provocatorio, trasgressivo, anticonformista, che è caratteristico nei suoi Scritti corsari, aveva scatenato delle reazioni risentite in particolare dal sindaco di Cutro Vincenzo Mancuso, per aver definito gli abitanti “banditi”. Anche in quell’occasione è venuto fuori l’orgoglio calabro sia da parte del sindaco che dell’ufficiale sanitario originario di Paola Pasquale Nicolini. Nella replica alla lettera di quest’ultimo (1 ottobre 1959) si cita questo passo per comprendere lo spirito dialettico di Pasolini:
“Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose “dune giallastre” durante la notte. Quanto alla miseria, non vedo perché ci sia da vergognarsene: non è colpa vostra se siete poveri, ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso” (si riferiva al Governo Segni). Pasolini continua la sua analisi e focalizza lo sguardo sulla natura antropologica  dei calabresi: “Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica, come i due che ho raccolto per la strada di Cutro, e che infine mi hanno salutato con “umanistica gentilezza”. (….) Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro “complesso di inferiorità”, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato. E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini”.

Insomma, tutto cambia affinché tutto rimanga come prima, per parafrasare il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: questi taglienti giudizi ereditano la preveggenza della sacerdotessa del tempio di Apollo Cassandra: hanno letto in profondità il destino della Calabria.

Poi nel 1964 Pasolini ritorna a parlare della Calabria, anno dell’uscita de“Il vangelo secondo Matteo” e con lucidità profetica così si esprime:

“In Calabria è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno: è stata uccisa la speranza pura, quella un po’ anarchica e infantile, di chi vivendo prima della storia, ha ancora tutta la storia davanti a sé”.

(In merito, oltre al volume “La lunga strada di sabbia” edito da Guanda, anche la ricostruzione sullo scambio epistolare tra P.P.Pasolini e l’ufficiale sanitario di Paola Pasquale Nicolini sul “Quotidiano della Calabria” del 23 luglio 2012, da parte di Roberto Losso che a sua volta ha suscitato una serie di commenti di scrittori, studiosi e giornalisti sul rapporto travagliato dello scrittore poeta e regista e la Calabria).

Per ritornare ai molteplici, surreali e variopinti complessi di inferiorità che si sono replicati come il coronavirus, in questa post modernità della post verità si traducono nelle grottesche caricature che vediamo in scena, mentre le attuali mascherine, in fondo, non solo altro che una inverosimile emulazione delle invisibili maschere che si indossavano abitualmente (Pirandello docet). In Calabria il grottesco e l’assurdo supera ogni fervida immaginazione fino al punto di suscitare il disgusto oltre al ridicolo, come il baciamano a sua maestà Silvio Berlusconi, da parte del suddito sindaco di Soriano Calabro Vincenzo Bartone. Questo gesto obbrobrioso e oltraggioso per un uomo delle istituzioni, ha reso manifesto un comportamento diffuso verso i padroni, i padrini e i predoni che hanno fatto di questa terra un ricettacolo di oscenità.

Calabresi, figli di un dio minore, senza colpa né redenzione

Nemo propheta in patria: l’espressione evangelica è quanto mai appropriata. Non ci interroghiamo sul perché il dottore Luigi Camporota sia stato costretto ad emigrare, dopo aver fatto gli studi universitari in Calabria, per poter svolgere la sua professione con dignità e onore. Facciamo finta di non sapere come mai la sanità in Calabria è disastrata elevando accorate preci verso gli dèi per allontanare ogni malattia, perché altrimenti saremo costretti ad emigrare, come tantissimi fanno, nei viaggi della “disperanza”. Non ci chiediamo perché il cittadino calabrese non abbia la stessa dignità di un altro cittadino, che si chiami Boris Jonson o Silvio Berlusconi  o Nicola Zingaretti o Matteo Salvini o Giuseppe Conte, o coloro che hanno la fortuna di vivere al centro-nord. Ed evitiamo di riflettere sul perché, tra la plebe, un povero contadino venga umiliato quando si presenta in qualsiasi ufficio o negli ospedali e non ha la stessa cura e attenzione riservata agli istrioni al potere. Eppure senza il suo onesto e laborioso lavoro vorremmo capire come queste eccelse eminenze possano cibarsi e respirare. Ma “qua si campa d’aria” cantava Otello Profazio,  e quante lacrime si versano per i casi della vita (sunt lacrimae rerum, Virgilio, Eneide). Abbiamo fatto dell’ingiustizia, della discriminazione sociale, dei privilegi, del disagio, della corruzione delle virtù, dei pregi, e ne celebriamo le lodi. Come al solito ci dobbiamo affidare ai Santi affinché ci proteggano, mentre per il Covid 19 fiduciosi ci affidiamo alle scelte miracolose della Santelli.

 Ma le egregie e illustri autorità istituzionali che ostentano l’appartenenza alla stirpe calabra, come spiegano questa orgogliosa rivendicazione di fronte  alle condizioni disumane, incivili e ignobili in cui versano i nostri ospedali, i nostri ambulatori e tante famiglie che nel silenzio soffrono lesi nella loro dignità ogni giorno, perché gli vengono estirpati i sacrosanti diritti sanciti nella Costituzione?

Questa insopportabile retorica dell’orgoglio calabrese sa di pane super ammuffito, sa di spazzatura maleodorante, sa di inganno senza tregua, sa di menzogna spacciata per verità, sa di oltraggio all’intelligenza, sa di irridente e canzonatoria predica. E ci rivela che, chi nasce in questa terra “senza colpa e senza redenzione” come osservava Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”, è predestinato a sradicarsi, a vivere in esilio. Come figli di un dio minore i calabresi onesti e liberi che decidono con coraggio di restare in Calabria sono condannati a subire continue offese, mentre gli altri ad assuefarsi ai meccanismi nefasti perpetrati da coloro che sono scelti o meglio, prescelti in base alle loro eccelse facoltà di fedeltà ai conquistadores. D’altronde, se la maggior parte del popolo sovrano si riconosce e si rispecchia in questi personaggi, come dimostrano gli esiti elettorali, le attese non potevano essere disattese. Le immagini e i contenuti che sono venuti fuori dalla trasmissione di Rai 3 Report (lunedì 30 marzo) sui nostri angeli custodi che dovrebbero tutelare le comunità delle Calabrie in questa emergenza, ci rivelano le prodezze comunicative e le scandalose “irresponsabilità”istituzionali. Avete visto come quel signore, dotato di super poteri, messo a capo della Protezione civile, sorridesse compiaciuto alle domande del giornalista mentre riconosceva di non sapere cosa fossero i ventilatori polmonari. A sua volta la presidente Santelli con uno sguardo tra il surreale e il disincantato replicava che in Calabria  esisteva solo un superman che poteva salvarci: Domenico Pallaria, diventato un vero enigma amletico per i molteplici incarichi ad interim conferiti o confermati dai presidenti Giuseppe Scopelliti, Mario Oliverio e, tanto per cambiare, Jole Santelli. Senza citare le inchieste per le quali è indagato e per i suoi mille tentacoli che gli hanno consentito, da dirigente illegittimo, di diventare intoccabile. Come è beata la “beata ebetudine” in questa terra! Il Cavaliere errante non ha rivali nel selezionare le sue dame di corte e i calabresi ad inchinarsi.

Dulcis in fundo, il capitano leghista Matteo Salvini, non poteva smentirsi in tema di orgoglio patriottico, con il suo coro intonato. Osannato e omaggiato da quei terroni trattati, fino a qualche tempo addietro, come reietti al pari degli extracomunitari, dopo aver costruito il suo consenso sull’odio verso i poveri cristi e i disperati, adesso esalta gli emigrati italici e si sente orgoglioso del medico calabrese, Luigi Camporota (che maestro sofista e sofisticato!): “Siamo orgogliosi dei nostri professionisti che si fanno onore davanti al mondo: complimenti al medico calabrese Luigi Camporota che sta curando Boris Johnson. È anche questo il bello dell’Italia e della Calabria nel mondo. I nostri cervelli, le nostre capacità, il nostro lavoro”.

Ironia della sorte, ci ha pensato un invisibile microbo a oltrepassare tutti i muri e a farsi ospitare nelle accoglienti dimore di tanti settentrionali che poi hanno contagiato tutto il resto del bel corpo dell’Italia disteso nelle feconde acque del Mediterraneo, ma infestate dagli invisibili nemici che viaggiano sui barconi, pronti ad usurpare le ricche e roride goccioline che fioriscono dalle caste labbra della musa Talia. E immaginate, cari lettori, se questo extracomunitario, che si camuffa come Covid 19, si fosse diffuso dalle coste calabre o da quelle sicule, quali reazioni si sarebbero scatenate verso i terroni meridionali, spregevoli untori della sanità e purezza nordica!

Populus gaudet tradere fasces turpi : “Il popolo gode nell’affidare il potere al turpe” (Seneca, Phaedra).

E’ inarrestabile il degrado politico-culturale. Ferisce profondamente la dignità  di tante persone che ogni giorno si sacrificano per illuminare le coscienze e l’intelligenza. Ma il complesso di inferiorità si diffonde al pari del coronavirus. Come aveva prefigurato Giuseppe Berto del 1972, “la conoscenza dell’alfabeto se non diventa cultura dà forza all’ignoranza e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo” (La ricchezza della povertà). Da attento osservatore dell’antropologia calabra (in quegli stessi anni Pasolini identificava nel Paese il virus della mutazione antropologica e del genocidio culturale), Berto aveva compreso che questo retaggio stava provocando dei danni irreversibili nel suo dna sociale e culturale. E il potere ha trovato il suo habitat ideale nelle prolifiche e operose mani dell’imbecillità.  Ai tempi in cui il popolo aveva messo in croce Gesù, il pagano Seneca (nella sua Phaedra) affermava che “Il popolo gode nell’affidare il potere al turpe” (Populus gaudet tradere fasces turpi). I tempi non sono cambiati e i segni li possiamo toccare con mano in particolare dall’inizio del secondo millennio, da quando il declino politico e culturale celebra la sua apoteosi.

E allora per uscire dalla mediocrità ascoltiamo Einstein:

Centinaia di volte al giorno, ricordo a me stesso che la mia vita interiore ed esteriore sono basate sulle fatiche di altri uomini, vivi e morti, e che io devo sforzarmi al massimo per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto e tuttora ricevo”.

In virtù di questa consapevolezza e riconoscenza con cui ragionava Albert Einstein, ne “Il mondo come lo vedo io” (1934) si impone una riflessione approfondita da altre domande.

A quali sacrifici e fatiche di altri uomini possiamo e dobbiamo commisurare il destino di una terra come la Calabria? Con quale tensione, visione, passione o compassione?

Sono tanti gli interrogativi che scaturiscono osservando la geografia umana e la fattura antropologica dei calabresi. Interpretando gli oracoli lasciati in eredità, nel segreto delle urne, i fatti ci raccontano che in questi 50 anni di storia, da quando sono state istituite le regioni, le ferite, i tradimenti, le pieghe e le piaghe inferte dai calabresi alla propria terra, sono state più profonde delle scosse telluriche scaturite nei secoli e di quelle che si lascerà dietro questa pandemia. “Quando tra imbecilli e i furbi si stabilisce una alleanza, state bene attenti che il fascismo è alle porte”, aveva ammonito Leonardo Sciascia ne “La Sicilia come metafora” (1989). Nei palazzi e sugli scranni sempre i soliti personaggi, protagonisti degli scempi inferti al territorio, al paesaggio, alla cultura, ma soprattutto alla dignità delle persone libere, responsabili, laboriose e oneste.

Ecco perché il più grande male che affligge la Calabria è la degenerazione antropologica dei calabresi: quei retaggi del feudalesimo che portano i vassalli, i sudditi, a inchinarsi, a prostituirsi e prostrarsi di fronte ai potenti di turno, ai nuovi e vecchi dominatori. Tutto questo si traduce nella mancanza di una vera cultura democratica e civile, nell’assenza dei valori etici e di sentimenti estetici ed eretici, capaci di indignarsi e ribellarsi; per cui non esiste la coscienza dei diritti, non si genera la luce della parresia, ma l’oscurantismo omertoso e criminoso dei privilegi, dei favori, o delle elemosine che i “benefattori” ogni tanto concedono ai loro “clientes”e ai miserandi postulanti. Una moltitudine di calabresi è come se vivesse ancora nel Medioevo: il Rinascimento e l’Illuminismo per loro non sono mai esistiti. Impera il sonno della ragione che ha generato fenomeni come il sindaco di Soriano Calabro Vincenzo Bartone.

Nicola Rombolà

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