Curiosità, credenze e superstizioni calabresi

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calabria mystery

Una carrellata di curiosità, credenze  e superstizioni, pubblicate da Luciana Loprete sulla pagina facebook Calabria Mystery,  tratte dal libro “Acquaro NELLA STORIA E NELLA TRADIZIONE” di Muratore e Scarmozzino, Ed. Garrì, 1991:

I morti ci parlano

Nelle lunghe giornate estive, sull’imbrunire, oppure d’inverno accanto al braciere i vicini della ruga o quartierino si riunivano a grappoli e, in mancanza di televisori, cassette, auto e luce elettrica, attendevano piacevolmente la notte abbandonandosi ai ricordi, ai racconti, alle confidenze. Uno dei temi più affascinanti era il racconto sui morti. Gli adulti parlavano, i bambini ascoltavano ipnotizzati; e si veniva a creare un clima magico, dove la voglia di sapere si alternava al brivido per ciò che veniva detto. Quando finalmente il gruppo si scioglieva e ciascuno andava a letto, spezzoni di quei racconti restavano conficcati nella mente e davano vita, durante la notte, a sogni da incubo, trasalimenti per ogni lieve rumore, sospetti che dietro ogni ombra si celasse un morto. I morti, infatti, iniziavano la loro giornata proprio quando i vivi andavano a dormire. Facevano processioni scendendo dal cimitero, si radunavano in chiesa, si sparpagliavano per le strade e si facevano vedere, direttamente o in sogno, quando avevano qualcosa da comunicare a parenti o amici. Veniamo così a conoscere che, in una certa casa, ogni notte, si sentivano rumori strani (i scrusci), come un martello che batteva, batteva … Finché, alla domanda disperata di chi chiedeva: «chi sei? cosa vuoi?», lo spirito si decideva a rispondere, rivelando la causa della sua presenza. Talvolta lo spirito ritornava nella casa abitata un tempo per molestare i familiari o i nuovi abitanti. E si divertiva a fare dispetti, come lanciare invettive, tirare i piedi, coricarsi a fianco o sopra lo sventurato, emettere suoni gutturali o misteriosi, apparire nella posa da impiccato. Per evitare simili incontri era bene dire, prima di andare a letto: «Gesù, Giuseppe e Maria, cacciate i morti da casa mia!». E perché il morto non venisse ad immobilizzarci sdraiandosi su di noi, si consigliava di dormire sul fianco e non di schiena (quest’ultima era la «posizione del morto»).

Gli spiriti di coloro che muoiono di morte violenta

I racconti più raccapriccianti, però, riguardavano le morti violente: individui assassinati, caduti da alberi o burroni, suicidi. Nell’immaginazione popolare questi spiriti vivevano un’esistenza molto tormentata nell’aldilà. Si diceva che la loro anima era condannata a rimanere sul posto dove erano morti, finché non trovava chi la sostituisse. Di conseguenza questi luoghi costituivano una costante trappola. Lo spirito, ad esempio, poteva indurre il malcapitato ad una disgrazia simile alla sua, oppure si poteva impossessare del corpo di chi veniva a sedersi, dandogli la sua voce e i suoi pensieri. E gli episodi di gente che, passando di là, aveva notato strani rumori, ombre, apparizioni si moltiplicavano. Un tempo i paesani legavano il corpo del morto assassinato, per impedire che il suo spirito rimanesse sul luogo dell’assassinio.

I morti comunicano con i vivi

La credenza nei morti veniva avvalorata da un altro fatto: in paese alcune persone li frequentavano. Partecipavano alle loro processioni, li vedevano, ricevevano i loro messaggi e li trasmettevano ai vivi. Talvolta era durante il sonno che gli spiriti incaricavano queste persone di recare le «ambasciate». Il giorno seguente giungeva, puntuale, il messaggio che iniziava con parole di questo tipo: «guarda che ho visto tuo padre, il quale mi ha incaricato di dirti che …». In genere i defunti non sono cattivi con i vivi e la popolazione vuole loro bene, anche se ha paura di incontrarli. Pensa infatti si tratti soprattutto di anime del Purgatorio, persone sofferenti in attesa di qualche refrigerio. Non per nulla le messe per le anime del purgatorio sono frequentissime in Acquaro.

Vittime della superstizione

Talvolta i morti non sono responsabili delle malefatte che attribuiscono loro i vivi. Come quella volta che un giovane di Acquaro, di sera, scendeva da Arena. Giunto sul ponte di Dasà, scorge sul lato opposto un anziano e pensa subito che sia uno spirito. Si fa coraggio e gli corre incontro avendo cura, quando gli passa vicino, di colpirlo per primo. Giunto a casa, racconta agitato di aver dovuto difendersi da un morto. Ma il mattino dopo, sulla piazza di Arena, vede un vecchietto tutto fasciato, che racconta al cerchio di persone incuriosite: «Ieri sera, mentre venivo ad Arena, ho incontrato un morto sul ponte di Dasà. Era uno spirito giovane e robusto. Appena mi vide, mi corse incontro e, con una spinta che poteva ammazzarmi, mi gettò nel fosso della strada!».

La preghiera dei defunti in processione evita la morte ad un uomo

Una donna sente, di notte, suonare le campane. Sprovvista di orologio ed abituata a frequentare tutte le funzioni religiose, si avvia in chiesa. Dalla porta sta uscendo una processione: la folla entra in una casa, quindi ritorna in chiesa. Ma sulla porta della Matrice alla donna non viene permesso entrare. Tornata a casa senza aver capito molto, trova il giorno appresso la logica spiegazione: in quella casa si trovava un uomo in pericolo di vita perché caduto da un albero; la preghiera dei defunti lo ha messo fuori pericolo, ed a lei era stato vietato l’accesso in chiesa perché la processione era composta di morti: se fosse entrata con loro avrebbe seguito la stessa sorte!

La pena di trent’anni sotto la ruota di un mulino

Un mugnaio viene svegliato all’improvviso da un gruppo di persone che gli gridano: «venite al mulino, perché abbiamo bisogno di macinare!». Andatovi, trova il mulino già in funzione e attorno una folla che lavora senza parlare. Con un misto di curiosità di paura di sdegno l’uomo implora: «per carità di Dio, ditemi chi siete e che cosa volete!». Gli risponde uno di loro: «Siamo dei morti condannati a scontare una pena di trent’anni sotto la ruota del tuo mulino. Questa notte finisce la pena, e noi stiamo festeggiando l’avvenimento».

Un giovanissimo suicida, vittima dell’apparizione “ammaliatrice” di un morto

Un fanciullo va a lavorare in un uliveto di recente acquisto. Su uno spiazzo di questa proprietà ora sorge una casetta per gli attrezzi, ma un tempo c’era l’aia, che veniva usata per battere il grano, fare festa, litigare e … regolare i conti. Più volte sotto l’uliveto, un po’ più distante, il ragazzo scorge un uomo che gli fa cenno di seguirlo. Un giorno controllano col papà; era piovuto, ma giunti sul posto dove il figlio dice di avere appena visto l’uomo, non c’è nessuno, né si notano tracce sul terreno bagnato. Sembra tutto finisca là. Ma un triste mattino i familiari trovano nella casetta questa giovane vita stroncata per sempre: il giovinetto si era suicidato senza nessuna apparente ragione. Chi lo aveva «ammaliato» al punto da fargli apparire bella la morte procuratasi con le sue stesse mani?

SCONGIURI PER ALLONTANARE I MORTI E MODI DI DIRE

  • Scongiuro da usare quando ci si siede sul luogo del delitto:

Jesù Jesù e Maria / Cacciati i mùarti d’ammianzu a via/

Si ‘nce ancunu ammazzatu / Cacciatimillu d’ammìanzu a strata.

(Gesù Gesù e Maria / mandate via i morti dalla via /

se c’è qualcuno ammazzato / toglietemelo dalla strada).

  • Scongiuro per quando si beve carponi:

Acqua sutt’acqua / Giusìappi ‘nta l’acqua /

L’àngialu ‘mbiva / e u diàvulu schjatta / Ppà Ppà ppà!

(Acqua sottacqua / Giuseppe nell’acqua /

l’angelo beve / e il diavolo schiatta / Ppà ppà ppà!).

 

  • Coccalu iancu du luni: Si chiama così la testa di chi si taglia i capelli a zero, perché una volta al lunedì si metteva in chiesa un teschio durante la celebrazione della messa per i defunti.

Superstizioni, malocchio e magherìe.

Ancora negli anni Cinquanta, non era raro scorgere, appese alla traversa dell’entrata principale delle abitazioni del paese, due corna (di bue, montone, capra o pecora). A questo semplice amuleto si affidavano due compiti: portare fortuna agli abitanti della casa, e proteggerli da eventuali influssi malefici. Infatti, il paesano che si illudeva di doversi guardare solo dai mali naturali, come la peste, la fame, l’alluvione, il terremoto, era un ingenuo. Nemici ben più temibili, perché occulti e proditori, infestavano l’aria. Ad esempio: un ragazzo sano e robusto cadeva improvvisamente malato? Un padre di famiglia cominciava a prendere abitudini viziose? Un giovane si innamorava perdutamente della persona sbagliata? Un bambino perdeva appetito, una ragazza diventava malinconica, su una famiglia si abbattevano ripetutamente lutti e sciagure? La prima cosa da chiedersi era se questi soggetti fossero stati colpiti dal malocchio. Il malocchio, nella credenza popolare, veniva trasmesso da uno sguardo carico d’invidia, di malignità e di ammirazione. Lodare con stupito incanto la bellezza o la salute di un bambino, essere invidiosi della fortuna altrui, augurare intensamente una disgrazia al proprio avversario, inviare maledizioni a chi ci da fastidio, chiedere l’aiuto di un esperto per nuocere di nascosto alla persona odiata: erano tutti mezzi efficaci per colpire lo sfortunato oggetto dei nostri pensieri. Come difendersi? Ricorrendo a formule e riti magici; oppure, se non siamo all’altezza della situazione, chiedendo l’aiuto dei «maghi», che oggi sono persone benestanti di città, ma una volta erano donne povere ed anziane del paese. Il modo più semplice di impedire al male di contagiarci è quello di «spaventare», sorprendendolo con un grido o un gesto inconsueto, chi sta adocchiando noi o qualche persona a noi cara. Inoltre, se si vede un poveretto (gobbo, storpio, nano, ecc.) è bene non guardarlo e, se lo si è guardato, esclamare subito: «foragabbu!» (fuori dalla meraviglia). Quando poi si è certi che qualcuno ha ricevuto la magheria (fattura), bisogna ricorrere ad operazioni più complesse. I familiari dell’adocchiato preparano un piatto, acqua, olio, sale, una croce, una «lumera» e, se l’ammagato” è assente, un suo indumento. Mentre qualcuno tiene la lumera all’altezza del capo dell’ammalato, il mago versa nell’acqua del sale, quindi tre gocce di olio, avendo cura di accompagnare questi gesti con la recita sommessa di formule magiche e preghiere note solo a lui e custodite gelosamente. Se le gocce d’olio si allargano fino a compenetrarsi, il malocchio non è stato cacciato. Si può comunque ripetere l’operazione altre due volte, ciascuna in giorni diversi. Quando le tre gocce rimangono integre e non si congiungono tra loro, il maleficio è stato vinto. Talvolta, tuttavia, il malocchio resiste ad ogni assalto. Allora si prepara un braciere e sulla brace si depongono tre rametti di palma benedetta, tre di ulivo e un po’ di incenso o zucchero; quindi si porta l’adocchiato in mezzo al fumo che sale dal braciere e, quando sarà notte, si depositerà il braciere al primo incrocio di strade. Si può, se si vuole, sostituire il braciere (pericolo di furto!) con tre pezzetti di ciaramida (tegola) sistemati in punti diversi della strada, ma sempre nei pressi dell’ammalato. All’alba, i primi frettolosi passanti, vedendo quegli strani focherelli, saranno presi da stupore e tale spontanea meraviglia contribuirà efficacemente alla dissoluzione del malocchio.

Pericoloso scherzare con gli influssi malefici!

Agli inizi degli anni Cinquanta, un gruppetto di fanciulle di Acquaro che frequentavano la maìstra (maestra) sarta, per passare il tempo inventarono un gioco: presero la bambola di pezza di una loro compagna assente, e cominciarono a conficcare a turno aghi nella testa. Sembrava un innocente passatempo. Ma il giorno dopo vennero a sapere che la compagna aveva passato un brutto momento: mentre lavorava, cominciò a sentire lancinanti dolori alla testa. Avvertiva delle trafitture, come spade che attraversavano il cervello, e credette di dover morire. Ma, all’improvviso come era venuto, il dolore cessò: proprio nell’istante in cui era finito il gioco delle sue lontane amiche!

Il malocchio.

Gli acquaresi, come la maggior parte dei calabresi, credevano che il malocchio fosse causato da uno sguardo carico d’invidia, di malignità e di ammirazione. Per difendersi ci si recava da anziane donne del paese che, attraverso semplici riti riuscivano ad allontanarlo. I familiari di chi aveva ricevuto la magherìa preparavano un piatto, dell’olio, acqua e sale, una croce, una lumera e, se l’adocchiato era assente, un suo indumento. Mentre una persona teneva la lumera all’altezza dell’ammaliato, chi procedeva a scacciare il malocchio versava nell’acqua tre gocce di olio, accompagnando il gesto con una recita sommessa di riti magici e preghiere solo a loro note. Se le gocce di olio rimanevano integre e non si univano l’operazione era riuscita, al contrario se si allargavano fino a diventare un’unica macchia il malocchio non era stato tolto. In quest’ultimo caso si ripeteva l’operazione per altri due giorni. Nei casi estremi si ricorreva ad un altro rimedio. Si preparava un braciere con dentro tre rametti di palma benedetta, tre di olivo e dell’incenso o zucchero. La vittima del malocchio veniva avvolta col fumo del braciere e di notte quest’ultimo veniva posto al primo incrocio della casa del malato. All’indomani i passanti, presi dalla curiosità, contribuivano alla cacciata del malocchio grazie alla loro spontanea meraviglia. Le antiche formule “scaccia malocchio” erano custodite gelosamente e venivano tramandate solo in determinati giorni dell’anno.

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