Ieri a Tropea “La mamma dei carabinieri”

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12/07/12. Ieri pomeriggio presso la sala del Museo diocesano di Tropea vi è stata la presentazione del libro di Alessio Puleo “La mamma dei carabinieri”. Il prof Pasquale De Luca, presidente del Premio Internazionale di Poesia “Tropea: Onde Mediterranee” ha partecipato all’iniziativa culturale nelle vesti di relatore.

Qui in basso la sua relazione integrale sul libro. Buona lettura

    Questo libro mi piace.

     Punto. Potrei finire qui il mio intervento. Chiudere. Andare via. Invece: invece, punto e a capo.

     Perché.

     Giusto: perché. E qui non posso mettere punto e finire. No, è un punto per iniziare.

     Quando ero piccolo, perché sono stato piccolo, fisicamente lo sono tuttora, andavo alle scuole delle suore, santa Giovanna Antida. Una di loro soleva dire: “Io sono la suora del perché”. Per ogni cosa chiedeva perché, voleva sapere perché.

     E allora, perché? Anche voi volete sapere perché. Perché mi piace questo libro? È a questo punto che il mio compito mi diviene più difficile, perché mettere un perché con un punto interrogativo per giunta lascia tutto in sospeso, mette tutto in sospeso. Ci deve essere una continuazione. Potrei dire: perché è bello. Altro punto, che, anche se è punto fermo, non ferma un bel niente. Anzi mette tutto in discussione, perché, dicendo “il libro è bello” io non ho fatto altro che commettere un’aggettivazione, dare una qualificazione. E sì, ho detto due cose: primo, il libro mi piace; secondo, il libro è bello. Punto e basta, no non basta nulla. Non basta nulla perché non ho detto nulla del libro. Pur avendo detto tutto: mi piace, è bello, in sostanza non ho detto nulla. Perché non ho dato una motivazione. Se mi ascoltate, lo farò ora.

     Cominciamo.

     In premessa: non createvi illusioni, da me non ascolterete il sunto del libro, il contenuto di esso. Non lo farò per due motivi (come vedete cominciamo con le motivazioni): primo, perché personalmente per mia formazione mentale sono contrario, nella presentazione di un libro, a fare il riassunto (mi sa tanto di esercizio scolastico, esercizio che come tale viene assegnato ai ragazzetti delle scuole) e quindi sminuirebbe il valore di una seria relazione; secondo (ed è la più importante), perché così facendo mi sentirei di offendere l’autore che ha scritto e il lettore che leggerà, cioè, è come se l’autore non sappia scrivere chiaro e come se il lettore non sappia capire lo scritto (sarebbe un’offesa all’intelligenza di entrambi, io non lo farò).

     Intanto, per me avere un libro è come avere una persona cara, un fratello, un amico con cui parlare, con cui dialogare. È un incontro fra due esseri che si immedesimano uno nell’altro: il libro con la sua materialità mi prende per mano, mi conduce dove lui vuole in un cammino già tracciato ma riga dopo riga tutto nuovo, tutto da scoprire; io lettore con la mia razionalità, con la mia anima mi immergo nel libro, lo sento mio, lo conquisto, me ne approprio. Fin dal primo impatto visivo e il primo contatto fisico si instaura fra me e lui un rapporto di intimità e di complicità che inizia col titolo e la copertina in una ascesa continua fino all’ultima parola e oltre, un rapporto che non finisce con la lettura pura e semplice ma la travalica e va oltre, supera il tempo. Va oltre l’ultima pagina, oltre l’ultima parola; penetra e affonda dentro il cuore.

     Il titolo (non vi impressionate: non dirò parola per parola) è come la carta d’identità di una persona, la identifica nella sua essenzialità, nella sua unicità. La individua in una infinità di gente. Il titolo in sintesi dice tutto del libro, lo rappresenta nel suo contenuto, ne delinea una traccia. Si presenta, con il titolo il libro si presenta. Dice: sono io. E il titolo del libro, virgolette del “mio” libro, è: La mamma… La mamma dei carabinieri.

     La mamma… Mamma: parola balbettata, sussurrata, invocata, gridata; parola che ci accompagna per tutta la vita dalla nascita alla morte, nei momenti lieti, nei momenti tristi; parola che riassume tutti gli affetti. Con l’articolo determinativo la per indicare, per dire di quale mamma si dice, di quale mamma si parla: di quella mamma, di una sola e specifica mamma: La mamma dei carabinieri. Non del carabiniere, …dei carabinieri. Di quale carabiniere in specifico? Dei carabinieri, cioè di tutti i carabinieri? Sì, di tutti i carabinieri perché anche i carabinieri hanno una mamma. Ma questa è una mamma speciale, è “la mamma” e basta. Ma chi è questa mamma?

     Mimma Lupo, Domenica, è la mamma dei carabinieri. Una mamma vera, con una vita vera, vissuta, tormentata. Una donna che vive tuttora. Che attraversa per intero tutto il romanzo. Romanzo, perché il libro è un romanzo. Un romanzo che dice verità. Un romanzo del ricordo e della memoria.

     A questo punto voglio ricordare i giudici Falcone e Borsellino, gli uomini della scorta: poliziotti, carabinieri che sono morti insieme a loro, e voglio ricordare un carabiniere ligio al dovere, pieno di umanità che Tropea lo ha visto nella sua storia, rispettoso e rispettato da tutti, esempio di correttezza morale e di intransigenza anche verso se stesso, un uomo che non dovremmo dimenticare: il maresciallo Francesco Di Salvo, ‘u Tata per intenderci.

     Dicevo che il libro è un romanzo, un romanzo che non è solo un romanzo, ma un romanzo che apre uno squarcio nella storia contemporanea dal Ventennio fascista, passando per la Seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni. È una storia raccontata con parole per immagini descritte con parole. Una storia lunga quasi un secolo, la storia di una vita. Di una vita in particolare: quella di Mimma, nei suoi snodi cruciali che, con gioie e dolori, più dolori che gioie, la sua bellezza, la sua forza, il suo coraggio, taglia con la sua persona tutto il libro in una vitalità di situazioni che entrano nei tuoi occhi, ti fanno vivere e riflettere.

     L’autore, in prefazione di Rita Borsellino, porta una citazione: “Non sei fregato veramente finché hai una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. No, caro Alessio, non è così. Non basta una buona storia, non basta che ci sia qualcuno a cui raccontarla, non basta se poi quella buona storia non la sai raccontare. L’autore di un libro deve saper raccontare la storia. Raccontare la storia significa immedesimarsi nella storia, far capire che quella è anche la propria storia, cioè farla vivere, riviverla, in prima persona. L’autore deve essere partecipe, quasi coprotagonista della storia che si vuole raccontare. L’autore di un libro è come un politico: il politico deve creare l’applauso, spingere la piazza all’applauso (non importa se poi vince o non vince le elezioni); l’autore deve creare emozioni, deve spingere il lettore a leggere, trascinarlo con le parole (allora, solo allora è un buon autore). E in questo Alessio Puleo, che io non conosco e vedo oggi per la prima volta, ci è riuscito benissimo: egli è un buon autore, perché ha creato emozioni, forti emozioni che trascinano il lettore dall’inizio alla fine in un crescendo continuo e dinamico di situazioni sempre nuove e diverse che hanno come punto di incontro solo una e una sola persona: Mimma, ragazza bella, piena di sogni, di aspirazioni, che la storia “a forza” la porta a vivere una vita diversa nella sofferenza, nella disperazione, sempre, però, con amore. L’autore è stato bravo e ci ha portato a vivere una storia che è una storia vera, in un libro da leggere, da amare.

     Io che non frequento preti e confessionali, mi voglio confessare: ho pianto.

     Se il pianto è l’espressione visibile di una emozione, ciò significa che il libro è carico di sentimenti (che non sono sentimentalismo) e di emozioni (che non sono sdolcinato romanticismo buono per tutte le stagioni). No, non è questo: è un libro che scava nella società, nella società anteguerra e postguerra, nella società di un ambiente e di una città in continua evoluzione, in continua trasformazione, in continua crescita e piena di contraddizioni. È un libro che ci racconta la verità, certo la verità non proprio vera ma trasformata artisticamente dalla penna dell’autore, che in esso molto spesso si riconosce e partecipa in prima persona, e di una donna, che vive ed ha vissuto con amore, una donna che noi da qui salutiamo e abbracciamo.

     È un libro di amore, avete capito. Un amore voluto, desiderato, aspettato. Un amore contrastato, combattuto, forzato: violentato. Un amore mai distrutto, continuato. Un amore sofferto, appassionato. Un amore fra la ragazza Mimma e Giovanni, un carabiniere. E un carabiniere è anche il nostro autore, e mi fa piacere che sia così perché con questo libro ha sfatato una stereotipata e antica leggenda (bonaria, naturalmente, perché la gente ha sempre voluto bene ai carabinieri nonostante le innumerevoli barzellette su di essi), per cui i carabinieri andavano a due a due perché uno sapeva scrivere e non sapeva leggere e l’altro sapeva leggere e non sapeva scrivere. Invece non è così, e questo libro lo dimostra sotto tutti gli aspetti. Alessio Puleo, carabiniere, sa scrivere; sa scrivere bene, molto bene.

     Parliamo ancora del libro, perché è di esso che dobbiamo parlare. È bello, lo abbiamo detto; è interessante, è emozionante, lo ripetiamo. È costruito bene, con arte, in ogni sua parte. Il tema è trattato con freschezza d’immagini, ottimamente inserite in un cotesto fisico, storico e sociale sintetizzato dalla figura dei personaggi, che sono tanti, ben delineati,  e tutti insieme di concerto ruotano intorno ad uno spazio, ad un luogo ben definito: il quartiere Brancaccio di Palermo (allora Borgo Brancaccio), con la sua vita vissuta di tutti i giorni, dove nobiltà d’animo cozza con espressioni di miseria, di assuefazione, di violenza. Gli stessi personaggi in modi propri e diversi ruotano poi intorno ad una sola persona, la protagonista, che con la sua storia adombra e annulla ogni altra storia.

     I critici paludati si sforzano sempre di inserire il libro e il suo autore in una corrente letteraria dominante e se non la trovano ne inventano una nuova. Verismo, naturalismo, romanticismo, neorealismo, ecc. ecc. Certo la narrazione nel nostro libro risente di tutto questo, in quanto qua e là emerge il substrato della letteratura meridionale, siciliana in particolare, Verga, Pirandello, ma anche Manzoni. Io dico: ogni libro è se stesso, unico e irripetibile, distinguibile per contenuto, per tecnica descrittiva, per forme propositive che lo caratterizzano e lo distinguono.  E questo libro si caratterizza e si distingue per vivacità di descrizione (non annoia, trascina), per  ambientazione storico/geografica (pur parlando di un luogo specifico e limitato, allarga e spazia su un orizzonte più vasto), per capacità introspettiva (caratterizzazione interiore ed esteriore dei personaggi descritti con i colori di un pittore), per dialogazione e aggettivazione (importanti, perché danno dinamicità alla narrazione che non stagna mai, anzi è in continuo movimento dal principio alla fine).

     Il libro non è edulcorato per leggerlo annoiati, semiaddormentati sotto un ombrellone. Il libro, nella semplicità del raccontare, nel modo preciso di inserire persone e vicende, dialoghi e introspezioni, ci porta a riflettere e meditare. La pagina chiara nella sua essenzialità si staglia nei nostri occhi, ci porta la parola, si infila nella memoria, ci ruba l’anima. È un libro che ti segna, lascia il segno. Non si può dimenticare.

     Le pagine lette e che si leggeranno ci daranno ragione, esse danno ragione dello spessore, della dimensione del libro, che è un capolavoro. Non in senso materiale, ma artistico, letterario, culturale. In quanto non è un libro locale, localistico, a buon diritto si inserisce nel più ampio filone della letteratura nazionale, anzi internazionale e in ciò non faccio da incensiere. Chi lo leggerà, se ne renderà conto.

     Le vicende, ce ne sono tante, son tutte collocate in Sicilia, terra ricca di storia e di cultura, terra di incontro e di scontro, terra dolce e amara, cerniera fra due opposte civiltà: quella orientale e mediterranea e quella occidentale e continentale, nord e sud in un incontro che continua ancora. Due culture, due modi di vivere e di pensare che noi cogliamo benissimo nelle figure di due personaggi: Mimma, figlia di una Sicilia ricca di pregiudizi dove accanto alle leggi scritte dello Stato dominavano le leggi vincolanti, non scritte, da tutti accettate e rispettate del “codice d’onore” (tipico il delitto d’onore), dove accanto alla legalità dello Stato impersonata dai carabinieri e, in particolare, da Giovanni, dominava un’altra “legalità” esistente temuta e riverita: la mafia, con le sue regole, le sue leggi, impersonata nel romanzo da Vito. Il bene e il male. Due culture che si incontrano e si scontrano, due culture che si cercano e si ignorano, due culture tanto diverse che non si capiscono. E quando si trovano e si uniscono (miracolo dell’amore: Mimma e Giovanni figli di due mondi distanti e diversi), si sprigiona lo scontro, un corto circuito fatto di ipocrisia e violenza che possono essere sistemate solo con altra violenza ben più grave perché trattasi di violenza morale, di violenza che, secondo le leggi di quel mondo, di quel tempo, dovrebbe essere riparatrice di un danno, di un onore violato a dispetto dell’uomo, della persona, a dispetto dell’amore.    

     C’è violenza nel libro? C’è. C’è mafia nel libro? C’è. Compare e scompare, si vede e non si vede. È in sottofondo presente e vigile su tutto ciò che c’è intorno, su tutto ciò che vive e si muove. Ma non si percepisce perché l’autore non si sofferma su di essa. Fa bene. In ciò egli si distingue da certa letteratura odierna di genere e di maniera che imperversa e invade spettacolarizzando una situazione di ben altra rilevanza. Ma nel libro c’è anche amore, tanto amore. È questo il filo conduttore che lega due anime costrette dalla violenza, legale e illegale, a percorrere due strade diverse non proprie, non volute, non desiderate.

     Per tornare indietro e finire: “Una buona storia non ti frega mai…” . È vero: ma tu, caro Alessio, l’hai saputa raccontare. Hai saputo mettere in libertà l’anima; hai saputo mettere in libertà la parola senza più vincoli e pastoie, lasciandola libera di volare, libera di andare in un volo d’amore che lascia stupiti e meravigliati, emozionati.

     Vorrei dire e dire, continuare a dire. Ma mi fermo ora con un saluto: “A domani, mamma!”.        

     Tropea, Museo diocesano, mercoledì, 11 luglio 2012, h. 18.00

Pasquale De Luca

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